I sauditi “hanno lavorato a stretto contatto con noi e sono stati molto reattivi alle mie richieste di mantenere i prezzi del petrolio a livelli ragionevoli, così importante per il mondo”, scriveva il presidente americano, Donald Trump, in uno statement ufficiale pubblicato ieri per confermare la vicinanza di Washington a Riad, nonostante le delicatezze del caso Khashoggi. “In qualità di Presidente degli Stati Uniti – continuava – intendo assicurare che, in un mondo molto pericoloso, l’America persegua i suoi interessi nazionali e contesti vigorosamente paesi che desiderano farci del male. Molto semplicemente si chiama America First!”.
Oggi Trump è tornato sulla questione con un tweet, sottolineando l’aspetto collegato al prezzo del petrolio, che per Washington è questione di sicurezza nazionale.
Oil prices getting lower. Great! Like a big Tax Cut for America and the World. Enjoy! $54, was just $82. Thank you to Saudi Arabia, but let’s go lower!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 21 novembre 2018
Secondo i dati degli scambi alla borsa di New York e Londra, ieri i prezzi del greggio sono calati di oltre il 6 per cento. Martedì, il greggio statunitense, il West Texas Intermediate, per le consegne di gennaio è sceso anche sotto i 53 dollari al barile per un breve periodo, il livello più basso da ottobre 2017 – per confronto, all’inizio del mese aveva superato i 74 dollari al barile. Sempre ieri, il benchmark internazionale, il Brent, viaggiava attorno ai 64 dollari con cali attorno al 61. Il punto più basso di ieri ha segnato una diminuzione del 28 per cento dei prezzi del petrolio in meno di sette settimane.
Tra i motivi dell’abbassamento dei prezzi, le preoccupazioni per un costante aumento della produzione in un momento in cui la domanda potrebbe ridursi: Russia, Arabia Saudita e Stati Uniti stanno lavorando a produzioni record e l’offerta potrebbe diventare eccessivamente ampia.
Poi c’è la dichiarazione di Trump di martedì, che sembra essere stato l’elemento che ha dato spinta al ribasso al processo in corso. Secondo il Wall Street Journal, alcuni attori di mercato hanno letto i commenti di Trump come parte di uno sforzo per impedire all’Arabia Saudita di tagliare la produzione di petrolio, tool con cui Riad, il più grande produttore al mondo, riesce ad alzare (o abbassare se serve) il prezzo del bene diminuendone la disponibilità.
Questo lavoro sui prezzi i sauditi lo hanno condotto dal ruolo politico detenuto all’interno dell’Opec, l’organizzazione dei produttori di petrolio, ma anche collaborando con il più grande produttore non-Opec: la Russia. Incontri tra Riad e Mosca sono attivi dal 2016: a giugno per esempio hanno portato a una regolamentazione di prezzi e produzioni (sbloccando i vincoli Opec del 2017). I russi hanno cercato di sfruttare il contatto per arricchire i loro rapporti con Riad. Non è un caso, infatti, se il Cremlino ha tenuto una posizione molto simile a quelle americana sugli sviluppi del caso Khashoggi, cercando di preservare al massimo la corte regnante saudita e chiedendo tempi e diluizioni: la motivazione è la stessa, business, interessi, visioni strategiche.
Possibile che in questa fase (piuttosto volatile) il ruolo dell’Opec però stia venendo meno, e come sostiene la Bloomberg in un’analisi, il prezzo del greggio sia sostanzialmente deciso dalle azioni di tre uomini: Donald Trump, Vladimir Putin e Mohammed bin Salman.
La necessità di un aumento delle produzioni per abbassare i prezzi è da molto tempo considerata importante dagli Stati Uniti, anche per non far subire al mercato il contraccolpo della riapertura completa delle sanzioni all’Iran – temperata anche dalla concessione di deroghe a otto dei principali compratori di petrolio iraniano, con le quali non far subire al mercato un contraccolpo troppo forte.
Tenere i prezzi bassi, soprattutto quelli alla pompa, per Trump è anche molto collegato alla sua dimensione politica: è importante che rimangano bassi perché sono quelli con cui i cittadini si trovano a più diretto contatto – sebbene per le società degli shale americane converrebbe tenere prezzi più alti, dato che gli investimenti estrattivi dagli scisti bituminosi sono più costosi.
Alla riduzione del prezzo del Brent e del Wti ha anche contribuito l’aumento delle scorte di petrolio nei paesi sviluppati dell’Ocse, in calo dall’inizio del 2017: secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, l’aumento andrà a superare il livello medio quinquennale già con i dati di ottobre.
A questo punto, diventa più chiaro perché il ministro degli Esteri saudita una decina di giorni fa aveva annunciato la possibilità di ridurre le produzioni rispetto a ottobre: Putin aveva risposto senza troppa convinzione, mentre Trump aveva rimproverato Riad. La dichiarazione di appoggio incondizionato di martedì, si inserisce in questo sistema di relazioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita: Trump assicura al regno la protezione internazionale della potenza americana, ma chiede in cambio l’allineamento secondo i propri interessi su argomenti come il petrolio.
Riad però deve sostenere con il petrolio i propri bilanci statali (il Fondo monetario internazionale ha dato una previsione: il greggio deve stare sopra ai 70 dollari per sostenere le spese del regno). Allo stesso tempo deve difendersi dall’attacco americano, che oltre alla leva politica può giocare quella commerciale: il bacino permiano del Texas produce a ritmi pazzeschi, sia di volumi che di tempi.
Da qui le ragioni del pressing di Trump, che sa delle necessità saudite, ma chiede all’alleato storico di metterle relativamente da parte davanti alle richieste americane. In cambio la Casa Bianca assicura protezione incondizionata: il Prez è molto smart in questo, e cerca di abbinare le sensibilità che i sauditi devono proteggere (il caso Khashoggi, la guerra in Yemen, il confronto con l’Iran) con gli interessi che lui vuol tutelare.