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Cop24, cosa c’è in ballo alla conferenza delle Nazioni Unite sul clima

Mai come quest’anno sui 197 delegati degli Stati partecipanti al COP24 di Katowice incombe la pesante responsabilità di portare a casa un risultato convincente nella sfida contro il cambiamento climatico. La prima metà di dicembre sarà cruciale per stabilire le sorti dello sforzo di cooperazione globale sull’ambiente, che va avanti con alti e bassi dagli Accordi di Rio del 1992.

Dallo storico Summit della Terra ad oggi ci sono stati, infatti, molti sviluppi divergenti. Ma dopo lo smacco dell’Accordo di Parigi del 2015, denunciato da Donald Trump per via degli effetti negativi delle limitazioni ambientali sulle imprese americane, la pressione sta aumentando. Gli Stati Uniti non potranno tirarsi fuori prima del 2020 perché la procedura di uscita dall’accordo prevede una tempistica di quattro anni e il Presidente americano ha annunciato di volerla rispettare. Si aggiunga a ciò la diffusione dell’ultimo preoccupante rapporto sul cambiamento climatico dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change): una circostanza che fa addensare sulla conferenza polacca una cortina di pessimismo.

Se non si agisce in maniera congiunta e tempestiva, dice il rapporto, si innescheranno dei cambiamenti irreversibili per il pianeta. Abbiamo solo 12 anni di tempo per farlo e lo sforzo maggiore è richiesto ai principali produttori di emissioni nocive: Stati Uniti, Cina ed Unione Europea sono in cima alla lista. A questo ritmo, infatti, nel 2030 la temperatura del pianeta aumenterà in media di 1,5° rispetto all’era pre-industriale: questo, secondo gli scienziati, sarebbe il fatidico punto di non ritorno oltre il quale comincerebbero a verificarsi una serie di catastrofi sempre più ingestibili e costose in termini di vite umane e perdite economiche. Il tono del rapporto Ipcc è ultimativo e la raccomandazione che ne viene fuori è drastica visto che richiede cambiamenti assoluti: emissioni zero entro il 2050. Ma chi è pronto ad accollarsi quest’onere?

Parlando dal G20 di Buenos Aires, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha stigmatizzato la mancanza di fiducia fra gli uomini chiave e le istituzioni sottolineando che “Katowice deve farcela […] Quando nel 2020 gli impegni di Parigi verranno rinnovati, dobbiamo essere sicuri che saremo capaci di riportare l’aumento delle temperature nel mondo al di sotto di due gradi e, se possibile di un grado e mezzo, prima della fine del secolo”.

Nel frattempo, fa tremare anche un’altra grande defezione, quella del Brasile di Jair Bolsonaro che, pur mandando i propri emissari in Polonia, ha sfiduciato i futuri summit sul clima, cancellando la propria candidatura ad ospitare la COP25 in programma per il 2019. Il nuovo Presidente di estrema destra, che ha sconfitto dopo 13 anni lo storico Partito dei Lavoratori, deve la sua vittoria proprio alle promesse sul rilancio dello sviluppo economico. Per Bolsonaro, infatti, l’agribusiness brasiliano è soffocato dalle questioni ambientali e altrettanto lo è il comparto industriale.

Ma se l’Amazzonia non è mai stata tanto vicina dal trasformarsi in un latifondo di soia come oggi, non deve stupire che paesi come la Cina o la Russia non siano pronti a sostenere lo sforzo di una riduzione del riscaldamento globale se non a condizione di reciprocità, pur sapendo che le loro politiche climatiche sospingerebbero la temperatura della Terra al di sopra di catastrofici 5 gradi (così, secondo un recentissimo studio di Nature Communications.

Quest’anno si è raggiunto un altro terribile record nella storia umana: l’Organizzazione metereologica mondiale ha registrato la più alta concentrazione di CO2 nell’atmosfera negli ultimi 3 milioni di anni. Se continua così, paesi come il Pakistan o il Kuwait diventerebbero più caldi della Death Valley californiana, con temperature massime ben al di sopra dei 50 gradi. L’innalzamento progressivo del livello dei mari farebbe scomparire molti arcipelaghi dell’Oceano Pacifico o dell’Oceano Indiano, come Palau, le Solomon, le Maldive o le Seychelles. Queste affermazioni sono fin troppo note e forse hanno già perso la loro efficacia persuasiva.

Eppure l’impotenza di questi Paesi, chiamati a subire le sorti della prepotenza di altri, è la prova di come la globalizzazione si muova a velocità ineguali. Per questo un nodo chiave del COP24 sarà il rifinanziamento di meccanismi come il Green climate fund, che permettano ai paesi meno sviluppati di sostenere lo sforzo di tagliare le emissioni di gas serra senza distogliere risorse dalla lotta alla povertà. In questo contesto, trovare una volontà politica comune e condivisa è un qualcosa di imperativo e ineludibile, senza particolarismi né sindrome di Nimby. Altrimenti la Terra rischia di diventare sempre più inospitale e allora non ce ne sarà più per nessuno.

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