L’arresto in Canada del direttore finanziario del colosso cinese Huawei Technologies, Meng Wanzhou, non una “semplice” manager ma figlia del fondatore del gruppo Ren Zhengfei, lancia un messaggio ben preciso degli Stati Uniti ai vertici politici della Repubblica Popolare.
A crederlo è il sinologo Francesco Sisci – saggista, editorialista e ricercatore della China’s People’s University – che in una conversazione con Formiche.net spiega perché l’avvenimento “cela l’esplosione di una più ampia contesa globale, commerciale ma non solo, in atto tra Washington e Pechino”.
Le autorità canadesi hanno arrestato a Vancouver su richiesta Usa il direttore finanziario del colosso cinese Huawei Technologies, Meng Wanzhou, non una “semplice” manager ma figlia del fondatore del gruppo Ren Zhengfei. Che cosa sta succedendo?
Il governo americano ha già da tempo una partita aperta con Huawei, accusata in questo caso specifico di aver violato le sanzioni all’Iran, ritenute da Washington un obiettivo strategico. Lo scontro, però, è più ampio, e riguarda la convinzione degli Usa che il colosso delle telco abbia creato, su suggerimento del governo, un vero e proprio sistema di spionaggio che renderebbe le sue infrastrutture e i suoi dispositivi dei “cavalli di Troia”.
Le tensioni sembrano avere al centro anche il sistema di comunicazioni mobile 5G. Perché?
Questo è uno dei tasselli fondamentali del mosaico che compone gli attriti tra i due Paesi. La Cina cerca in ogni modo di promuovere nel 5G un suo standard. Questo viene visto da Washington come un doppio problema: da un lato ci sono i già citati timori di spionaggio soprattutto ai danni del sistema industriale, dall’altro c’è la volontà americana di cambiare una situazione che al momento non è basata su elementi di reciprocità. Il sistema cinese delle telco è completamente in mani pubbliche ed è impenetrabile alla competizione straniera. Gli Usa vogliono “rompere” questa asimmetria.
Si è da poco tenuto un importante incontro bilaterale tra i presidenti Donald Trump e Xi Jinping al G20 di Buenos Aires che sembrava essersi concluso con una “tregua”, seppur temporanea. Perché questo arresto?
Questo arresto, reso noto oggi, è avvenuto in realtà il primo dicembre, proprio nelle stesse ore in cui Xi e Trump si incontravano. E questa tempistica a mio parere non è casuale, ma cela un messaggio ben preciso. L’amministrazione Usa ha voluto dire a Pechino che se da un lato c’è una tregua, dall’altro ciò non significa che in questi tre mesi – i famosi 90 giorni dati dagli Stati Uniti alla Cina per esaudire le richieste americane – Washington non farà nulla, anzi. Si tratta a mio avviso di un avvertimento, anche in ottica futura: tutti i dirigenti di imprese cinesi sospette sono a rischio di viaggiare fuori dal loro Paese non solo negli Stati Uniti, ma anche in nazioni alleate di Washington. È senza dubbio un rialzo importante dell’asticella di questa partita politico-strategica.
Quale sarà la risposta cinese, al di là delle dichiarazioni di rito?
Per il momento sarà una risposta sottotraccia. Negli ultimi 5-6 mesi, dopo aver ignorato per anni l’aumento dell’insoddisfazione generale dei Paesi occidentali, la Cina ha capito che il problema con gli Usa è serio e non può essere gestito semplicemente con piccole ritorsioni o pratiche del passato. In precedenza Pechino pensava che bastasse comprare più beni o fare concessioni minori, ora non è più sufficiente. Il problema con le obiezioni del mondo occidentale è profondo e non può essere gestito in modo secondario, e questo la Cina lo sa. Per questo ritengo che questo arresto, seppur importante, non sarà usato per rompere la tregua in atto, semmai convincerà ancora di più Pechino della necessità di non trascurare le istanze americane.
Che cosa è cambiato rispetto al recente passato nei rapporti tra Occidente e Cina?
Come sappiamo nel tempo è cresciuta una guerra commerciale data da una differenza sostanziale tra economie diverse e sono emerse pesanti recriminazioni sul furto – soprattutto cyber – di know-how. Ma in verità la preoccupazione oggi è strategica e riguarda il sistema politico cinese, non democratico rispetto agli standard occidentali, e una serie di dossier sull’espansionismo cinese che vanno dalle tensioni nel Mar cinese meridionale alle questioni territoriali col Giappone, passando per la Belt and Road Initiative.
Come si concluderà questo scontro dai connotati globali?
Difficile dirlo, perché c’è un problema di fondo. Pechino, come detto, è consapevole che qualcosa dovrà cambiare. Non sa però come giungere a questo obiettivo finale e come rispondere a questi problemi di fondo. Anche da parte degli Usa non c’è però ancora un “endgame” chiaro: se la Cina accettasse tra 90 giorni tutte le richieste americane – apertura del commercio, fine dei sussidi statali alle aziende cinesi, il termine del programma di espansionismo tecnologico – basterebbe a Washington? O vogliono che rinuncino a tutto, anche alle questioni geopolitiche asiatiche? In questa doppia mancanza di chiarezza io credo che la spirale di tensione potrà durare ancora a lungo.
In questo scenario come deve collocarsi l’Italia?
Penso che sia giusto che l’Italia cerchi un suo interesse nazionale, ma cambiare sistema di alleanze è un’altra cosa. Siamo stretti alleati degli Stati Uniti e credo che quella debba essere, senza se e senza ma, la nostra collocazione. Piuttosto di dibattere su questo caso specifico, occorrerebbe capire cosa l’Italia può fare costruttivamente, limitatamente al suo peso e alla sua dimensione, per risolvere i problemi che gli Usa hanno con la Cina e come aiutare la Cina a integrarsi nel sistema occidentale.