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Economia e influenza politica. Ecco come la Cina guarda alle relazioni con l’Ue

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Nei giorni scorsi l’agenzia di stampa cinese Xinhua ha pubblicato integralmente il China-EU Policy Paper, ossia il documento con cui Pechino diffonde le linee guida sulle relazioni con l’Unione europea. Ricorda Giulia Pompili (una delle giornaliste italiane più esperte sull’Asia) sulla sua newsletter, “Katane”, che questo è il terzo documento del genere: il primo nel 2003, il secondo nel 2014. Già questa tempistica di per sé dà il peso e l’importanza del paper.

Partiamo da un aspetto centrale: il documento dice che la Cina è favorevole a un’Europa “unita, stabile, aperta e prosperosa”, che  “supporta il processo di integrazione europeo, e continua a impegnarsi a sviluppare legami con le istituzioni dell’Ue” in modo da rafforzare la cooperazione e i benefici reciproci di questa relazione. È una linea ben nota: Pechino ha come traguardo politico e geopolitico l’armonia, una condizione di stabilità globale – processo dove intende aver ruoli di guida – da cui poter ottenere pace e prosperità.

E infatti, continua il testo: “Sulla base di interessi e bisogni comuni, la Cina e i paesi dell’Europa centrale e orientale applicano una cooperazione win-win, aperta e trasparente”. Ma qui c’è la prima questione: “La Cina vuole veramente un’Europa unita?” si chiede Pompili, che cita per esempio il gigantesco progetto commerciale-infrastrutturale – e forse molto di più, geopolitico – One Belt One Road, la Nuova Via della Seta. “Non c’è stata una politica unificata dell’Ue nei confronti dell’iniziativa One Belt, One Road”, ha scritto in un’analisi Philippe Le Corre, ex consulente del ministero della Difesa francese, ricercatore esperto di Cina della Harvard Kennedy School e del Carnegie Endowment e visiting fellow al Center on the United States and Europe della Brookings Insitution.

“Diversi paesi e città dell’Ue sono stati particolarmente aperti agli investitori cinesi. Altri sono stati più cauti, cercando garanzie dalla Cina che seguiranno gli standard internazionali e non perseguiranno esclusivamente i suoi interessi geostrategici”: dunque la Nuova Via della Seta potrebbe essere anche un argomento divisivo, più che un vettore per saldare l’Ue. Le Corre ha scritto l’analisi per il Lowy Institute, think tank di Sydney: in questi ultimi dieci anni, l’Australia è stato uno dei paesi che più ha avuto a che fare con la penetrazione cinese all’interno del proprio tessuto socio-economico e politico (guardando le difficoltà con cui Camberra sta cercando di bilanciare, in mezzo alla pressioni americane, il potere acquisito dalla Cina sul suo territorio certe analisi dovrebbe avere un sapore profetico per chi le legge a Bruxelles? ndr).

Il documento cinese parla anche esplicitamente di due questioni che per Pechino hanno un valore fondamentale perché rappresentano due elementi a cui si vincola una certa stabilità interna e su cui si misura, secondo il metro del governo cinese, il grado di affidabilità e di compostezza (detto meno educatamente: sussidiarietà e asservimento, ndr) di un partner; e rappresentano tema di quella penetrazione e influenza politica che i cinesi cercano di imprimere sugli altri paesi. Taiwan e il Tibet. Per il governo cinese, l’UE deve “esplicitamente” difendere la politica “One China”, ossia quella della Cina unita, secondo cui l’isola è una provincia ribelle da riconquistare anche con la forza. Stessa policy da tenere sul Tibet.

Pompili fa notare come sia “curioso” questo genere di pressing esplicito, messo in contrasto con la dichiarazione centrale contenuta nell’ultimo discorso del presidente Xi Jinping, quello per il quarantennale dell’apertura economica, in cui l’uomo della New Era cinese diceva che “nessun paese è nella posizione di dettare cosa debba o non debba essere fatto in Cina” (Xinhua ha pubblicato il paper europeo proprio mentre Xi pronunciava il suo speech).

Ma la questione non è solo interessante per questo (per certi versi classico) doppio standard, ma perché, soprattutto su Taiwan, c’è un allineamento opposto a quello che la Cina richiede all’Unione Europea che arriva da Washington. Mentre già a luglio un’alta delegazione dell’Ue in visita a Pechino aveva firmato un documento contente un passaggio in cui si indicava che “l’Unione europea riconferma la sua One China policy”, l’amministrazione Trump è stata fin dai primi giorni vicina a Taiwan. Ci sono stati contatti telefonici tra leader; è stata ben accettata l’attività di lobbyning in Congresso; ha fatto sfilare le sue unità armate in navigazione libera tra le acque dello stretto che divide l’isola dalla terra ferma cinese; ha stretto un accordo su forniture di carattere militare.

Pechino tiene molto in considerazione la questione Taiwan. In un’immagine: quando Xi ha parlato al 19esimo Congresso del Partito comunista lo scorso anno, ha apertamente dichiarato che ha intenzione di “sconfiggere qualsiasi forma di secessione di indipendenza di Taiwan” e non permetterà a nessuno di aiutare questo processo. Questo passaggio è stato il più applaudito tra le quasi tre ore di discorso.

Il rischio escalation esiste, e la situazione è piuttosto complicata. A settembre, Tanner Greer, ricercatore basato a Pechino esperto di politiche strategiche nell’Est asiatico, ha scritto per Foreign Policy un lungo saggio sulle possibilità di un confronto militare tra Cina e Taiwan, concludendo che i cinesi potrebbero anche perdere una guerra contro l’isola.

Ma per il momento, Pechino spinge più che sulle armi – comunque mostrate più spesso del solito lungo lo stretto di Taiwan – sulla propria influenza globale per diffondere policy contro le posizioni taiwanesi. Una linea assorbita da Bruxelles, ma che trova opposizione a Washington (che pure finora ha formalmente riconosciuto la One China), dove viene usata come argomento nel confronto globale contro la Cina, ma crea un’altra distanza tra Europa e Stati Uniti.


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