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Psyco-game militare tra Cina e Usa. Navi americane davanti a Taiwan

Due navi della US Navy, la “USS Curtis Wilbur” e “USS Antietam”, hanno solcato il 22 ottobre lo stretto di Taiwan, il tratto di mare che divide la Cina dall’isola che Pechino considera una provincia ribelle. Il governo taiwanese sostiene che è stata un’attività di routine, la marina americana rimarca che “il transito […] dimostra l’impegno degli Stati Uniti verso un Indo-Pacifico libero e aperto. La US Navy continuerà a volare, navigare e operare ovunque permetta la legge internazionale”, ma per i cinesi si tratta di una provocazione.

La presenza di due navi americane armate con missili da crociera nelle acque dello stretto – uno dei più delicati contesti geopolitici del mondo – è un messaggio a Pechino, che sotto la visione politica della One China considera la riconquista di Taiwan come una necessità da ottenere anche con la forza. All’opposto, l’amministrazione Trump, stressando il confronto con i cinesi su tutti i piani disponibili, ha aumentato il suo sostegno a Taipei: il presidente americano ha avuto una conversazione telefonica con la sua omologa taiwanese poco tempo dopo l’elezioni, e il governo statunitense ha approvato forniture militari all’esercito dell’isola. Il 10 ottobre, in un discorso pubblico la taiwanese Tsai Ing-wen (con cui Pechino ha interrotto definitivamente i rapporti nel 2016) ha intimato alla Cina di smettere di essere una “fonte di conflitto” nella regione: parole che non hanno certo sedato le tensioni (ad aprile una grande esercitazione cinese nelle acque dello stretto aveva simulato l’invasione di Taiwan).

Per il Dragone questo argomento è più sensibile della diatriba sul Mar Cinese, luogo in cui passaggi di libera navigazione avvengono ormai veramente di routine e sono il modo con cui Washington marca la propria presenza nel dossier controbattendo le pretese di sovranità assoluta cinese sull’area. La Antietam, tra l’altro, come parte del Ronald Reagan Carrier Strike Group, dopo aver fatto scalo alle Jeju Island in Corea del Sud, ha partecipato anche a esercitazioni congiunte con la marina thai proprio in mezzo al Mar Cinese Meridionale. (Anche la “Thomas G. Thompson” è arrivata lunedì scorso nel porto di Kaohsiung, nel sud di Taiwan, con il compito di rifornire di carburante e scambiare membri dell’equipaggio con le altre due navi).

La mossa americana era stata anticipata da qualcosa di analogo già operato dalla marina americana: era il 7 e l’8 luglio, quando prima il cacciatorpediniere “USS Mustin”, poi l’omologo “USS Benfold”, entrambi di stanza in Giappone (a Yokosuka, sede della Settima Flotta) avevano solcato le acque dello Stretto di Taiwan – recentemente non c’è mai stato più di un passaggio all’anno di navi militari americane nell’area, dal 2007 non è mai passata una portaerei. Quest’estate l’ira dei cinesi era uscita pubblicamente sulle colonne del Global Times – giornale del Partito Comunista che si occupa di politica estera di Pechino – che aveva definito “un gioco psicologico” l’invio di navi da guerra in quella lingua di mare.

Il 30 settembre era toccato al cacciatorpediniere “USS Decatur” solcare il Mar Cinese sul ciglio degli isolotti contesi su cui Pechino ha iniziato una militarizzazione silenziosa, come messaggio di deterrenza. Quando la nave americana, che navigava sempre nell’ottica di questi colpi di fioretto politico-diplomatico-militari, nelle Gaven Reef – due lingue di terra emerse nell’arcipelago delle Spratly, di cui la Cina rivendica sovranità – una nave della marina cinese gli era arrivata a soli 45 metri di distanza, tanto che il battello statunitense aveva dovuto deviare bruscamente la rotta. Un incidente del genere potrebbe rappresentare l’innesco di situazioni peggiori. Abbiamo “serie preoccupazioni”, è la linea cinese espressa anche martedì dalla portavoce del ministero degli Esteri, Hua Chunying.

Lunedì, il Global Times ha pubblicato un editoriale a firma di un ricercatore presso l’Istituto Nazionale per gli studi sul Mar Cinese Meridionale – Chen Xiangmiao il suo nome, ma è quasi superfluo dirlo perché il governo di Pechino usa analisti e professori allineati col Partito solo con l’obiettivo di esprimere le proprie posizioni politiche su certi argomenti. Il ricercatore difendeva le “esigenze [di Pechino] di salvaguardare la sovranità territoriale e la giurisdizione marittima” su quell’area per garantire “corridoi sicuri per l’importazione di energia e il trasporto di merci contro le azioni di aggressive degli Stati Uniti”. “A giudicare dalle circostanze attuali – scriveva – la Cina non ha altra scelta che prendere contromisure, incluso il crescente dispiegamento militare nella regione”.

La questione-Taiwan è stata uno degli argomenti trattati dal segretario alla Difesa americano, James Mattis, con il suo omologo cinese,  il generale Wei Fenghe, durante la ministeriale dell’Asean di giovedì scorso – un incontro tra i due a Pechino all’inizio del mese è saltato per cavilli sollevati dai cinesi, in realtà come conseguenza delle tensioni per i nuovi step dello scontro commerciale in atto. Il capo del Pentagono ha rassicurato che Washington non sta cambiando posizione sulla One China, che appoggia, ma Taiwan e il Mar Cinese restano argomenti su cui “continueremo ad avere differenze” – Mattis ha anche attaccato la militarizzazione nel Mar Cinese Meridionale e “l’azione aggressiva della Cina nelle acque internazionali”, fattori che “destabilizzano la regione e minaccia gli sforzi condivisi per promuovere la sicurezza”.

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