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I democratici fanno muro. Un altro shutdown per Trump

La Casa Bianca e il Congresso, particolarmente il fronte democratico, non sono riusciti a raggiungere un accordo, e dalla mezzanotte (ora di Washington) il governo americano è andato nuovamente in shutdown, ossia ha sospeso tutte le attività non essenziali a livello federale.

Come già successo nel gennaio 2017, è la polarizzazione politica a dominare la questione. L’innesco è la mancanza di fondi per il Muro al confine col Messico, che Donald Trump promette fin dalla campagna elettorale (diceva che lo avrebbe costruito nei primi cento giorni da presidente, sono passati due anni e ancora niente: i fan scalpitano). I Repubblicani possono, al limite, anche cedere alla richiesta trumpiana (più alla Camera, dove il bilancio con i soldi per il muro è già stato approvato, che al Senato, dove qualcuno degli uscenti Rep già ha preso posizioni contrarie). I democratici no: non vogliono fare un passo indietro, e allungano il dibattito anche in attesa del 3 gennaio, quando (per effetto dei risultati delle Midterms del mese scorso) entreranno in maggioranza alla Camera.

Trump avrebbe anche per questo provato a forzare la mano, chiedendo che nella legge di bilancio federale fossero inseriti 5,7 miliardi di dollari per costruire (sul serio, e non solo con i claim propagandistici usati finora) l’infrastruttura che dovrebbe tener fuori i migranti dal Sudamerica. I democratici non ci stanno, e hanno proposto di aumentare la spesa per i border patrol (il tema dell’immigrazione è piuttosto sentito dall’opinione pubblica, e anche per questo abbastanza condiviso dai due schieramenti. Ndr), ma senza Muro.

Venerdì sera, quando gli uffici federali stavano per chiudere, s’è diffusa la notizia del mancato accordo, e Trump ha pubblicato sul suo profilo Twitter un video in cui fa lo sguardo severo e incolpa i democratici dello shutdown, colpevoli di aver fatto saltare tutto perché non hanno interesse per la sicurezza ai confini.

Politico è quello tra i media americani che ha avuto per primo la notizia sul futuro, diciamo così, delle trattative. Fonti parlano al sito di un possibile compromesso attorno a un numero: 1,6 miliardi di dollari da aumentare al bilancio delle agenzie che hanno il compito di controllare le frontiere (essenzialmente quella meridionale), ma senza che nemmeno un centesimo di quei fondi venga utilizzato anche per un solo mattone del Muro. La soluzione, proposta dai democratici, potrebbe soddisfare i repubblicani, ma non è chiaro quanto sia d’accordo il presidente.

In realtà lo shutdown attuale è però solo parziale: Vox, uno dei siti di informazione più attenti alle verifiche sulle ripercussioni quantitative dell’applicazione – o meno – delle leggi, dice che soltanto il 25 per cento della attività federali resterà momentaneamente senza fondi, e dunque sospesa (sono 380mila i dipendenti pubblici che saranno bloccati a casa senza stipendio per la durata della chiusura del governo, mentre più di altrettanti dovranno lavorare senza paga, perché impiegati in uffici essenziali: tra loro i border patrol). Per il resto ci sono già stati stanziamenti sufficienti: parliamo della US Mail, dell’esercito, tribunali federali e dei programmi assistenziali come Medicaid e Medicare.

Lo shutdown arriva anche in un momento delicato per la presidenza Trump, che ha mosso decisioni importanti sulla politica estera (il ritiro dei soldati dalla Siria e quello parziale dall’Afghanistan, che hanno un significato dottrinale oltre che tecnico-strategico), mentre vede il boom economico in fase di contrazione. Ieri, Dow Jones e Nasdaq, due degli indici di Wall Street, hanno chiuso la peggior settimana dall’ottobre 2008 (il Nasdaq, l’indice dei prodotti tecnologici, da ieri è entrato ufficialmente nella fase di bear market, ossia ribassi di oltre il 20 per cento dall’apice); per l’SP500 è stata la peggio dall’agosto del 2011.

Shutdown e politica estera (non solo i ritiri, ma anche la trade war con la Cina che non sembra sbloccarsi) sono gli argomenti che hanno preoccupato gli investitori. Ieri anche il dato macroeconomico del Pil americano è stato rivisto al ribasso, dal 3,5 al 3,4 – da considerare che il secondo trimestre del 2018 faceva segnare valori superiori al 4 per cento (la contrazione avviene comunque in mezzo una fase di crescita che, come indica il Sole 24 Ore, si tratta di “una congiuntura in ripresa ormai da metà del 2009”.

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