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Dentro alla Casa Bianca. Due anni di Trump raccontati da Peter Baker (New York Times)

Fare il corrispondente dalla Casa Bianca non è compito da poco. Lo è ancor meno se dietro alla scrivania dello Studio Ovale c’è Donald Trump, il Tycoon che è diventato il 45° presidente degli Stati Uniti facendo (non sempre a torto) dei “Fake News Media” un acerrimo avversario. Il rapporto di Trump con i media è fatto di amore e odio. Pubblicamente li attacca, ma non perde occasione di guardare alla tv un servizio che lo riguardi, specie delle emittenti più critiche. Ne sa qualcosa Peter Baker, Chief correspondent del New York Times alla Casa Bianca, ruolo che ha ricoperto per il Washington Post con George Bush e Barack Obama, volto illustre del giornalismo a stelle e strisce. “Ho seguito tre presidenti, ho intervistato e conosciuto Trump e posso dirvi che non ha paragoni” confida ai nostri microfoni. A due anni dall’insediamento a Capitol Hill, Baker traccia con Formiche.net un primo, chiaroscurale bilancio della presidenza Trump.

Iniziamo con una domanda personale. Cosa si prova a fare il reporter dentro la Casa Bianca di Trump?

Devo dire che non ha nulla a che vedere con il lavoro che ho fatto alla Casa Bianca con i suoi predecessori. Tutto ciò cui siamo stati abituati con gli altri presidenti, le regole, il galateo, le convenzioni, è finito fuori dalla finestra. Fa parte del dna politico di Trump. Quel che un tempo pensavamo fosse impensabile ora non lo è più. È decisamente la Casa Bianca più imprevedibile che io abbia mai visto.

Due anni sono sufficienti per un bilancio provvisorio, a partire dalla politica interna. Sono più i successi o i fallimenti?

Non c’è dubbio, il più grande successo di Trump al Congresso è stata la riforma fiscale da 1,5 triliardi di dollari approvata alla fine del 2017. A dire il vero è stato l’unico. Tutte le altre riforme annunciate sono rimaste sulla carta. Il fallimento sull’Obamacare è esemplare. Uno dei pochi risultati portati a casa da Trump, la riforma bipartisan della giustizia penale passata al Congresso a fine dicembre, è stato completamente offuscato dalle lotte interne e dallo shutdown del governo federale.

Trump ha dalla sua il Partito repubblicano?

In privato molti dei repubblicani lo criticano, c’è chi condivide poco o nulla delle sue scelte. Ma in pubblico hanno dimostrato di sapersi schierare compatti con il presidente. Ci sono ovviamente ragioni di opportunità. Chi in passato ha ferocemente dato addosso a Trump si è ritrovato senza un seggio all’indomani delle elezioni di metà mandato o è direttamente andato in pensione. Oggi la pattuglia repubblicana al Congresso si è ristretta, ma è decisamente pro-Trump.

Passiamo al dossier nomine e licenziamenti. Sembra che il presidente abbia applicato alla Casa Bianca il format di The Apprentice

Sono passati due anni e Trump ancora non ha trovato una persona con cui davvero riesca a lavorare bene. La cerchia dei fedelissimi va restringendosi. Molte nomine gli sono state suggerite all’inizio e sono inevitabilmente durate poco. L’ex segretario di Stato Rex Tillerson e l’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale H.R. Mc Master sono due licenziati illustri, ma la perdita più importante è stata quella di Jim Mattis, generale a capo della Difesa apprezzato da democratici e repubblicani. Ora ci sono tante persone nominate “pro tempore”, dal segretario alla Difesa al procuratore generale, dal capo dello Staff al direttore dell’Epa. Potremmo dire che ci troviamo di fronte a un’amministrazione pro tempore.

Che dire invece delle riforme economiche? La crescita e l’occupazione sono due cavalli di battaglia di Trump difficili da negare..

L’economia americana è florida ma è stata in parte ereditata da Trump. I dati sulla crescita occupazionale dei primi mesi della sua amministrazione sono molto simili a quelli degli ultimi mesi di Barack Obama alla Casa Bianca. Diversa però è la fiducia che Trump è riuscito a installare tanto nei leader della comunità imprenditoriale quanto nel pubblico grazie agli sgravi fiscali e soprattutto alla deregolamentazione. È questa fiducia la causa profonda del boom dei mercati azionari nel 2017 di cui Trump si è tanto vantato. Oggi i mercati sono in tumulto anche per la guerra commerciale che il presidente ha intrapreso con Cina, Europa e Canada.

A proposito di commercio, tra i primissimi atti firmati da Trump nello Studio Ovale c’è il ritiro dal Trans Pacific Partnership (Tpp), l’accordo di libero scambio che riunisce altri dodici Paesi. Fu un errore?

Il ritiro dal Tpp è stata una sconfitta significativa. Diversi consiglieri economici, a partire da Gary Cohn, avevano invano spiegato a Trump che non si poteva contenere la Cina sconfessando un accordo commerciale con i suoi principali competitors. Ciò detto anche Hillary Clinton aveva espresso forti dubbi sul Tpp in campagna elettorale e non possiamo sapere se con lei alla Casa Bianca il Congresso avrebbe ratificato il trattato.

Più difficile tirare le fila per la politica estera. Trump ha davvero messo l’America “first”?

Trump ha dato avvio alla più grande revisione della politica estera americana negli ultimi settant’anni. Ha messo in pratica la teoria dello scontro strategico con Cina e Stati Uniti e ha scelto di fare un passo indietro dall’Europa. Così facendo ha creato non pochi dissapori fra i repubblicani, che storicamente hanno sempre supportato la Nato, così come l’alleanza con Giappone e Corea del Sud spesso messa a rischio dalle scelte del presidente. Trump considera gli alleati come debitori che si approfittano degli Stati Uniti e sente di dover riscuotere il debito.

Il ritiro dell’esercito americano dalla Siria annunciato un mese fa ha creato molto scalpore. Trump andrà fino in fondo?

Trump non avrebbe mai sacrificato una pedina del calibro di Jim Mattis se non avesse voluto far sul serio. Ritirare i soldati dalle “guerre senza fine” è un pilastro del suo programma elettorale, la cooptazione dei generali è servita forse a rallentare le operazioni ma non riuscirà a far rimanere l’esercito in Siria. Adesso è il turno dell’Afghanistan. Vedremo se riuscirà a portare via l’esercito da Kabul entro la fine del mandato.

In conclusione, quale sarà la sfida più insidiosa per Trump nel 2019?

L’impeachment, anche se al momento rimane uno scenario improbabile. I risultati delle indagini di Mueller possono attivare la Camera in mano ai democratici. Qualora i dem trovassero i voti per avviare l’impeachment, rimarrebbe lo scoglio del Senato dove servono venti voti dei repubblicani per la maggioranza dei due terzi. La vera domanda da porsi è piuttosto: le rivelazioni di Mueller faranno cambiare idea a quei venti repubblicani?

 

(Foto: Wikipedia)

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