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Nancy Pelosi, speaker alla Camera. Lo scontro con Trump, tra impeachment e shutdown

Ieri i nuovi Rappresentanti degli Stati Uniti si sono insediati alla Camera, che per effetto delle elezioni di metà mandato ha cambiato colore: la maggioranza è diventata democratica dopo che dal 5 gennaio del 2011 era in mano ai repubblicani. I Dem hanno fatto subito due mosse per marcare il nuovo corso dell’assise dei deputati.

Primo, hanno eletto la speaker, ossia la presidente (la terza carica dello Stato, dopo il Presidente e il vicepresidente) e hanno scelto Nancy Pelosi, una decana dei democratici al Congresso, che negli ultimi sedici anni ha ricoperto i ruoli chiave del partito alla Camera – quando hanno avuto la maggioranza dal 2007 al 2011 era già stata speaker, nei quattro anni precedenti, e negli otto successivi è stata capogruppo.

Pelosi non è il genere di persona a cui si può pensare puntando a cambiamento e rinnovamento: italo-americana di 78 anni (è nata D’Alessandro, ha scelto l’invito dell’ambasciatore Armando Varricchio per passare la serata prima della nomina, allietata da una serata organizzata in suo onore dalle note di Tony Bennett), deputata dal 1987, è stata la prima speaker donna della storia degli Stati Uniti, è una rappresentante granitica dell’establishment del partito e del Paese (e anche per questo contro di lei ci sono critiche da parte di chi intende combattere incessantemente le varie leadership dalla pancia del populismo anti-élite).

Però Pelosi – che oggi avrà un incontro con il ministro degli Esteri italiani, Enzo Moavero, in visita a Washington –  è molto rispettata. È una super-politica che anche in questa occasione ha saputo magnetizzare su di sé tutte le anime del partito, i nuovi e i vecchi democratici, ed è stata scelta anche perché conosce a menadito le dinamiche parlamentari. Questa è un’enorme forza in proiezione futura: lo speaker ha molto potere, può decidere che genere di leggi muovere, assegnando la priorità al dibattito, e può scegliere chi sarà il deputato a presentarle, può indirizzarvi fondi, insomma può decidere l’intera gestione della Camera.

Ieri, la nuova speaker ha subito mandato un messaggio per riscaldare i suoi elettori: ha detto (anche se in modo non troppo convinto) di “non escludere” l’avvio della procedura di impeachment a Donald Trump per via del Russiagate – l’inchiesta sulle interferenze russe alle presidenziali, le possibili collusioni con il team del repubblicano, gli eventuali atti di ostacolo al corso della giustizia del presidente.

L’impeachment è una procedura politica, non un’incriminazione giudiziaria, con cui un presidente viene messo davanti ai congressisti per una sorta di fiducia/rimozione. Si apre alla Camera dei deputati, con un voto a maggioranza semplice, ma poi per concludersi con la rimozione del presidente ha bisogno del voto di due terzi dei senatori – e in Senato i repubblicani hanno (seppur debolmente) consolidato la loro maggioranza e non sembrano affatto pronti a sfiduciare il presidente.

Da ricordare che l’impeachment è stato attivato solo tre volte nella storia americana, con le presidenze Johnson e Clinton, ma non è mai successo che si arrivasse alla detronizzazione dello Studio Ovale; nel 1974 la Camera avviò la procedura, ma Richard Nixon si dimise prima del voto del Senato, perché sapeva di avere il suo partito contro per via dello scandalo Watergate.

Dunque l’idea dell’apertura della procedura è vicina alla fanta-politica, però il solo evocarla ha un richiamo elettorale; e più forte avrebbe il lanciarla, sebbene monca, perché lederebbe l’immagine di Trump, per questo non è detto che i democratici non lo facciano comunque. E qui arriviamo alla seconda mossa, fatta subito ieri dai Dem per marcare il nuovo imprinting della Camera: la votazione sullo shutdown.

Come previsto, i deputati Dem hanno fatto passare normative per riaprire buona parte delle attività federali chiuse ormai da tredici giorni di blocco del governo. Due misure – una per continuare a finanziare il dipartimento della Homeland Security (Dhs) fino all’8 febbraio, un’altra per finanziare sei agenzie federali fino alla fine dell’anno fiscale – che però non prevedono soldi per il Muro col Messico.

E per questo sia la Casa Bianca (Trump ha detto di volere 5 miliardi di dollari da destinare all’infrastruttura anti-immigrazione) che il Partito Repubblicano avevano annunciato di non voler andare avanti con la votazione una volta che sarebbero arrivate al Senato. Il decreto sulla Homeland Security è mezzo che permetterà di allungare i colloqui sul muro messicano, visto che è il Dhs l’agenzia che ne dovrebbe essere responsabile, ma include solo 1,3 miliardi per la protezione delle frontiere. Il Partito Repubblicano ha detto che non voterà nemmeno l’altro, a meno che non glielo imponga la Casa Bianca (che però non ha nessuna intenzione di farlo).

Non era un accordo – come di solito accade quando si muovono in Parlamento certe leggi – dicono i repubblicani, infuriati perché le votazioni appaiono come mosse tattiche che fanno saltare il senso dei delicati negoziati in corso (oggi è prevista un’altra riunione tra i due partiti alla Casa Bianca). I democratici le hanno votate non senza spirito di parte, per dare un segno, dimostrare buona volontà davanti al proprio elettorato, senza però perdere punti fermi (il non finanziare il Muro, appunto). Lo spirito è identitario, e ha anche un pizzico di left-populism (a cui sempre più parti della sinistra americana stanno accedendo); un senso di raccolta per tutti quei lavoratori degli uffici federali chiusi, che si trovano senza stipendio (come prevede lo shutdown) e che vogliono che i partiti trovino una quadra per ripartire.


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