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Perché la sfiducia ad al Serraj non deve fermare la mediazione dell’Italia in Libia

Fayez Serraj, Libia, trenta

In Libia una nuova crisi sembra essere dietro l’angolo. E questa volta il premier internazionalmente riconosciuto Fayez al Serraj, la cui azione di governo tanto aveva potuto contare sull’appoggio appunto internazionale, potrebbe non trovare il sostegno di uno dei partner più significativi, almeno in termini di influenza: gli Stati Uniti.  Nel caos ingestibile della regione libica infatti gli Usa vedono annidarsi nel Paese sempre di più lo spettro ineluttabile del terrorismo.

Dopo la sfiducia dei tre vicepresidenti del Consiglio Ahmed Maetig, Fathi al Majbari e Abdel Salam Kajman, che lo accusano di una gestione “personalistica” del Paese, portandolo al “collasso”, l’invito unanime che viene rivolto ad al Serraj è quello di “non pensare ai propri interessi personali ma a quelli della Libia”. “Il tuo ignorare le parti in conflitto, inclusi i membri del consiglio presidenziale, ha reso (l’organismo) un elemento di conflitto anziché generatore di soluzioni”, è stato scritto nell’accorato appello rivolto al premier dai propri vice.

Tuttavia, in una conversazione con Formiche.net, Michela Mercuri, docente di Storia Contemporanea dei Paesi mediterranei ed esperta di Libia, ha sottolineato come “la sfiducia nei confronti di Serraj da parte di soggetti fino ad ora vicini al Consiglio presidenziale mi pare più addebitabile a motivazioni diverse rispetto a quelle ‘ufficiali’. I tre esponenti del governo sono a loro volta vicini a forze sempre più in contrapposizione al leader a marchio Onu come la fratellanza musulmana – rinvigorita dall’appoggio della Turchia che di recente ha inviato armi ad alcune milizie vicine alla fratellanza – e i misuratini che aspirano a divenire sempre più un terzo potere nel Paese grazie anche a un rinnovato asse con la Francia. Questa posizione, dunque, mi pare più orientata a rinvigorire forze locali in vista delle consultazioni parlamentari piuttosto che a marginalizzare Serraj a causa della sua incapacità di mantenere la stabilità a Tripoli. Cosa che, tra l’altro, sarebbe stata molto più semplice con l’appoggio dei misuratini e delle altre componenti locali di cui i tre leader sono espressione”.

E ancora sostiene Mercuri: “D’altra parte Serraj è sempre più vicino ad alcune milizie come ad esempio quelle di Tajuri poco amate dalle forze sopra citate. E questo piace poco alle forze da tempo presenti a Tripoli e dintorni”.

Tanti i tasselli che si sono rinsaldati in questa rotta di collisione interna nel governo di Tripoli. Giusto giovedì scorso, sempre i tre membri del Consiglio avevano invitato il governatore della Banca Centrale della Libia e il capo dell’Audit Bureau del Paese a non approvare la decisione di Serraj di nominare Suleiman Al-Shanti come capo della Autority per il Controllo Amministrativo. E se gli esponenti dell’esecutivo di accordo nazionale, dunque, sembrano decisi a rifiutare un processo decisionale da loro definito “individuale” da parte del premier e che mette a rischio la già delicata situazione libica, Mercuri aggiunge: “La posizione di Serraj è sempre più fragile. Salamè si è recato di recente a Sebha e Bengasi e non ha risparmiato critiche a Serraj dimostratosi incapace di realizzare le riforme promesse, in termini economici e di sicurezza, per stabilizzare il Paese”.

Senza contare che “se a ciò aggiungiamo che il sempre più potente vice premier Maiteq vorrebbe prima possibile un posto al sole per le consultazioni parlamentari e ha l’appoggio di Misurata, è plausibile ipotizzare il preludio per un ‘golpe’ finalizzato ad escludere Serraj da qualunque possibilità di presentarsi alle elezioni”, ha detto l’esperta.

“Il perseguimento da parte di Serraj di un’esclusione dei partner interni al Consiglio, la sua totale dipendenza dalle coalizioni transnazionali e dagli attori internazionali porterà ad un completo collasso non solo del governo ma di tutto il Paese”. Così si legge nella lettera dei vice. Insomma, i rappresentanti di Misurata, Cirenaica e della formazione vicina alla Fratellanza musulmana, si sentono esclusi dalle decisioni prese dal premier e la situazione, oltre ad alimentare l’acredine stessa all’interno del governo di Tripoli, potrebbe rischiare di compromettere anche la faticosa road map stabilita dall’Onu per portare stabilità nel Paese. Infatti, polemiche a parte, l’impegno dell’inviato speciale per le Nazioni Unite Ghassan Salamè è focalizzato al referendum costituzionale (che dovrebbe tenersi a febbraio) e ogni casella di questo intricato puzzle che è la situazione in Libia è necessario che rimanga al suo posto.

“Difficile dire quale potrà essere la soluzione migliore a livello internazionale per portare avanti senza intoppi il piano Onu visto il continuo e a volte imprevedibile rimescolamento degli equilibri interni”, specifica Mercuri. E ancora:”Credo sia necessario in primo luogo cercare di portare avanti Serraj fino alle elezioni per evitare che le varie forze sul campo possano decidere iniziative autonome creando ulteriori caos e spaccature interne. Voltare totalmente le spalle a Serraj ora vorrebbe dire far passare il messaggio che siamo in balia dei vari leader locali e che non abbiamo una linea comune a livello internazionale. Perderemmo credibilità. In questo senso maggiore supporto al Gna per mettere in sicurezza la capitale. In secondo luogo tenere conto del ruolo dei misuratini e includerli nel dialogo politico soprattutto con Maiteq”.

“Infine anche tenere vivo il canale con Haftar, sia come comunità internazionale sia come Italia. Una politica maggiormente coesa dei vari attori europei, una linea più assertiva di Salamè, maggiori sforzi per unire le banche centrali e per limitare le infiltrazioni jihadiste potrebbe essere un buon inizio. Se non si pacificano Tripoli e altre città in cui è in corso una guerra civile non vi potranno essere elezioni”, sottolinea l’esperta.

Ed è in questo contesto che si inseriscono gli Usa che, senza giri di parole, hanno fatto presente la propria insofferenza al clima perennemente instabile della regione, con conseguente annidamento di cellule terroristiche che a ragione veduta, continuano a compiere attentati in Libia. E la bandiera nera dell’Isis è un timore enorme per Washington, che non potrà rimanere indifferente alla questione. “Gli Stati Uniti hanno poco interesse per le questioni libiche (tanto che nel vertice sulla Libia dello scorso novembre avevano investito l’Italia del ruolo di mediatore) ma hanno a cuore il tema terrorismo. È evidente che se Serraj non si dimostrerà in grado di limitare la proliferazione di gruppi terroristici, Isis compreso, nel Paese, potrebbero appoggiare altre forze come i misuratini e quindi anche Maiteq, che potranno garantire una maggiore gestione del problema”, aggiunge Mercuri.

E Roma, a questo punto, che ruolo potrebbe o dovrebbe avere? L’opinione dell’esperta è chiara: “L’Italia continua a mediare sia con Serraj sia con Haftar, ma se non terrà conto dei nuovi equilibri a Tripoli rischierà di restare di nuovo marginalizzata nel Paese a vantaggio di altre potenze come la Francia che poco prima del vertice di novembre aveva invitato esponenti di questa potente milizia a Parigi. Il monito per il nostro governo è quello di tenere conto di questi nuovi equilibri che si stanno ridisegnando nel quadro interno prima di approntare la conferenza che dovrebbe tenersi in Libia, come garantito durante il vertice di Palermo”.

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