È nata la Repubblica di Macedonia del Nord. E per l’Europa, anche se la maggior parte degli europei lo ignora e continuerà a ignorarlo per molto tempo, è solo una bella notizia, in un periodo, diciamocelo, in cui di belle notizie se ne sentono sempre meno.
Il Parlamento di Skopje, con una votazione incerta fino all’ultimo, ha votato una serie di emendamenti costituzionali che consentono di fare entrare in vigore l’accordo di Prespa, firmato lo scorso giugno dal premier macedone, Zoran Zaev, e il suo omologo greco, Alexis Tsipras.
In estrema sintesi, la ormai ex repubblica di Macedonia, accetta di cambiare il suo nome in Repubblica di Macedonia del Nord, mettendo così fine a una disputa solo apparentemente di ordine toponomastico, ma con importanti implicazioni storiche e culturali. In cambio, Skopje ottiene l’avvio dei negoziati per l’ingresso nella Nato e in Unione Europea, che per una volta tanto, seppure in ritardo, ha messo a segno un colpo che, se gestito in modo lungimirante e intelligente, potrebbe rivelarsi strategico.
Come tutte le votazioni storiche che si rispettino, il premier Zaev se l’è vista brutta più volte ed è riuscito a conquistare solo 81 voti su 120. In pratica, il minimo sindacale per portare a casa il risultato. Ma si tratta di un piccolo, e nemmeno poi così tanto, capolavoro politico, se si conta che il primo ministro è riuscito a raccogliere sotto lo stesso ombrello i suoi deputati socialdemocratici, otto fuoriusciti del partito nazionalista Vmro-Dpmne, principale voce dell’opposizione, a soprattutto i parlamentari di Besa, il partito della minoranza albanese.
Zaev in persona ha spiegato che l’accordo con la minoranza è stato possibile, grazie un approccio più morbido alla questione della identità nazionale macedone e a un maggiore riconoscimento delle altre identità etniche e linguistiche del Paese oltre alla già citata albanese, ossia quella greca e quella bulgara. Una mossa che, sulla carta, avvia la Repubblica della Macedonia del Nord non solo a un futuro europeo, ma anche di maggiore pace interna.
Zaev per primo, però, sa che è troppo presto per cantare vittoria. E questo per due motivi. Nelle prossime settimane, entro marzo, l’accordo di Prespa deve essere ratificato anche dal Parlamento di Atene. Il premier Tsipras arriverà al voto con una maggioranza scricchiolante, dove il suo alleato, il Partito Anel dei Greci indipendenti, è notoriamente contrario all’intesa di Prespa. Ammesso che anche in Grecia il voto passi, il giovane premier macedone deve stare attento a quello che succede entro i confini domestici. Vmro-Dpmne ha gridato al tradimento della patria ed è da martedì che nel centro di Skopje si radunano centinaia di persone per protestare contro l’accordo. In primavera si terranno le elezioni presidenziali e i conservatori-sovranisti di Vmro-Dpmne faranno di tutto per mantenere nelle loro mani la prima carica dello Stato e costringere Zaev alle elezioni politiche anticipate.
Sulla piccola repubblica ex yugoslava, nelle prossime settimane terranno gli occhi puntati in molti. Non solo Bruxelles ed Atene, ma soprattutto Mosca, alla quale il risultato del voto di ieri non è andato per niente a genio. La repubblica di Macedonia (del Nord) è un punto di riferimento per il Cremlino nei Balcani, che si confermano terra di confine, di incontro, di scontro e di contesa. E proprio Mosca nei mesi scorsi era stata accusata di aver interferito non poco, soprattutto con l’aiuto della rete, nel rafforzamento dei movimenti sovranisti, per impedire a Skopje di avvicinarsi all’Ue, ma soprattutto alla Nato.
Zaev ha vinto la sua battaglia. L’Unione Europea adesso deve fare la sua parte e favorire un’integrazione che sia reale e non solo uno scambio di favori o di opportunità. In altre parole, deve tirare fuori una strategia sul lungo termine che sia credibile, sperando che sia in grado di farlo. Perché nei Balcani gli equilibri cambiano molto, troppo in fretta e Mosca è pronta a riprendersi quello che le è stato portato via con gli interessi. Al Vecchio Continente, manca solo la sua parte orientale in preda al più riottoso sovranismo per sprofondare in una voragine di cui accarezza già abbastanza il ciglio.