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Dico sì alla partita in Arabia Saudita. E l’Italia nomini una donna ambasciatore

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Anche il festival dell’ipocrisia dovrebbe avere un limite e le democrazie servono proprio per testimoniarlo nella quotidiana vita delle loro istituzioni (diversamente dai regimi non liberali). Per questo ritengo surreale e sostanzialmente miserabile la polemica sulla finale di Supercoppa che Juve e Milan giocheranno il 16 gennaio in Arabia Saudita.

E ritengo anche sbagliata la posizione del ministro Salvini, cha ha criticato duramente la volontà italiana (della Lega Calcio) di disputare comunque l’incontro. Dico questo non certo per omaggio all’argomentazione (da cui dissento profondamente) secondo la quale lo sport dovrebbe essere lasciato fuori dalla vicende politiche: anzi io la penso esattamente al contrario.

Penso cioè che lo sport sia per sua natura elemento essenziale della politica (lo dimostra anche la storia antica – parte mito e parte realtà – delle Olimpiadi) e comunque tutto ciò è ancor più vero per il calcio, che ormai ha da tempo lasciato i confini dello sport “puro” per entrare a pieno titolo in quelli del mega-business di primario livello geo-politico.

La ragione per cui mi oppongo alla retorica a buon mercato contro la finale giocata al “King Abdullah Sports City Stadium” di Jeddah è di ben altro tipo ed è tutta legata al ruolo che le democrazie vogliono giocare nel mondo moderno ed al senso della storia e del suo divenire che non può mai essere separato dall’azione politica.

Cominciamo dal primo punto, quello che riguarda il ruolo delle nazioni governate da istituzioni democraticamente elette. Ebbene proprio questi Stati (e le loro emanazioni sovrannazionali come Ue o Nato) debbono giocare la loro partita sullo scacchiere internazionale senza perdere di vista la bussola della credibilità e della sensatezza delle proprie posizioni.

Diciamolo allora senza infingimenti: è semplicemente ridicolo contestare una partita di calcio (pur importante) perché giocata in Arabia Saudita mentre quel Paese intrattiene normali relazioni diplomatiche con tutte le democrazie del mondo, partecipa alle più importanti coalizioni militari per la lotta al terrorismo e l’equilibrio in Medio Oriente (Desert Shield e Desert Storm tra 1990 e il 1991, Alleanza Militare Islamica contro l’Isis del 2015), vende petrolio in tutti i continenti essendone il più importante estrattore tra i membri dell’Opec, acquista forniture militari da tutti i Paesi occidentali, sviluppa relazioni commerciali e finanziare per decine di miliardi di euro l’anno.

Insomma l’Arabia Saudita è uno dei protagonisti del nostro tempo e come tale deve essere trattato, pena la credibilità nostra e di tutti i democratici del pianeta. Questo non significa dire che “tutto va bene, madama la marchesa”.

La barbara uccisione di Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul non va dimenticata né scusata in alcun modo. È un fatto gravissimo la cui responsabilità pesa totalmente sul sistema istituzionale, diplomatico e di intelligence dell’Arabia Saudita che ha voluto (o non ha saputo impedire) un omicidio di Stato che non ha giustificazione alcuna.

Di questo omicidio, pianificato ed eseguito con agghiacciante ferocia, non si dovrà perdere memoria e dovrà pesare per lunghi anni, evocandolo in tutte le sedi di incontri internazionali. Poi c’è il tema del senso della storia e dell’evoluzione della società saudita, improntata (in molti casi) a desueti e ingiusti principi d’ispirazione religiosa.

Su questo punto non possiamo negare due aspetti in apparente contrasto, che però sono di non dissimile rilevanza. Da un lato è evidente che alcuni progressi sono stati compiuti (l’apertura nuova sale cinematografiche, le donne alla guida delle automobili) ma è ancora lontano un accettabile equilibrio di diritti tra i generi e molti aspetti della vita collettiva sono sottoposti a rigidi controlli sostanzialmente liberticidi.

Insomma c’è molto lavoro da fare e su questo la comunità internazionale può giocare un ruolo essenziale, appoggiando con forza (in modo equilibrato e non provocatorio) il robusto movimento d’opinione delle donne saudite, che va prendendo coraggio ogni giorno che passa.

Ad esempio i Paesi europei potrebbero nominare sempre più spesso donne alle guida delle loro ambasciate, evento ancora assai raro (il primo caso della storia è quello della Georgia nel 2010) fino ad oggi. Perché non comincia l’Italia?

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