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Per l’Istat siamo in recessione, ma non è una sorpresa

Dopo il timbro dell’Istat, è ufficiale. L’Italia è entrata in recessione, che sarà anche “tecnica”. Ma comunque è recessione, caduta del Pil, crisi strisciante dalle incerte prospettive. Meno 0,2% nel quarto trimestre del 2018, dopo il -0,1 del terzo. Consola che anche la Germania si trovi in una condizione simile, ma non è mal comune mezzo gaudio. Le conseguenze di quel ripiegamento per i territori produttivi del Nord est, che hanno legato il loro sviluppo alle forti esportazioni di prodotti intermedi verso quell’hub, non saranno rose e fiori.

Comunque, come recita uno spot pubblicitario rivolto ai prostatici, “non hai più scuse”. Anzi, non abbiamo più scuse. Per uscire dal tunnel prossimo venturo, occorrerà rimboccarsi le maniche. Riporre il tema del lavoro, che è il riflesso sociale dello sviluppo, al primo posto, abbandonando le oscure profezie sulla “decrescita felice”. Che sono solo il frutto avvelenato di una cattiva sociologia. Resta comunque lo sconcerto, che nasce dalle avvisaglie dei mesi precedenti. Respinte al mittente dalla supponenza di molti esponenti del governo. La Banca d’Italia, solo qualche giorno fa, aveva rivisto al ribasso le stime di crescita: 0,6%, per l’anno in corso, sulla scorta di analoghi indirizzi da parte di altri autorevoli centri studi.

Dati inaffidabili aveva sentenziato Luigi Di Maio. Il Fondo monetario si era mosso sulla stessa lunghezza d’onda ma è solo “un’organizzazione di burocrati le cui ricette hanno prodotto povertà”: aveva rincarato la dose Alessandro Di Battista, sempre più immedesimato nei panni di Che Guevara. L’avvocato del popolo, Giuseppe Conte, non aveva invece perso l’aplomb. In quel di Davos, che riuniva gli economisti di mezzo mondo, aveva pronunciato la sua arringa: “la crescita dell’Italia potrebbe arrivare fino all’1,5% quest’anno” aveva sostenuto tra lo stupore generale. Salvo poi smentirsi proprio ieri, di fronte agli imprenditori di Assolombarda, forse i più critici rispetto all’azione del governo. Ha iniziato con un’ammissione di colpa: “diamo per scontata una nuova contrazione del Pil”. Per poi aggiungere, evidentemente nei confronti di sé stesso: “Non dobbiamo girare la testa altrove, ci sono dati congiunturali non favorevoli. Ma si tratta di fattori esterni, come il rallentamento della Cina e della Germania, in particolare per la frenata del settore auto”.

Ma come? Viene subito subito da ricordare. Non era stato il suo delfino, il ministro dello Sviluppo Economico e del welfare, nonché vicepresidente del consiglio, Di Maio, ad imporre l’eco-tassa sulle automobili a benzina e diesel, trascinando l’intero governo sull’orlo di una crisi di nervi. Ed ora, quando la frittata è fatta, scopriamo la “frenata del settore auto”. Una iattura che non coinvolge le grandi case automobilistiche del sud est asiatico, che invece, grazie al bonus, brindano a champagne. E subito affiorano i primi sospetti su possibili collusioni, nel Paese in cui “a pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso ci si indovina”. Massima della vecchia saggezza andreottiana.

La verità è che la “rivoluzione del popolo” si sta dimostrando per quella che realmente è. Pura eterogenesi dei fini: “conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali”. Wilhelm Wundt: filosofo e psicologo empirico tedesco. Ipotesi dimostrata da accadimenti antichi e recenti. In Cile il colpo di stato di Pinochet, agli inizi degli anni ’70, ebbe successo a causa del fallimento della politica economica di Salvator Allende: inflazione alle stelle per l’eccesso di spesa pubblica, e blocco della produzione. Enrico Berlinguer fu costretto, con dolore a prenderne atto, ed elaborare la strategia del “compromesso storico”. Amalgama non riuscito, a causa delle contrapposte visioni programmatiche dei due partiti in lizza. Qualcosa che si intravede, anche oggi, nelle progressive divergenze che si manifestano a livello di governo.

Il chavismo venezuelano, un mix di socialismo latino americano, di anti–globalismo e di anti americanismo, ha distrutto una delle principali economie di quel grande continente. Il più ricco produttore di petrolio del mondo, che ha causa delle sue chiusure non riesce più a rendere competitiva la propria produzione. Investimenti fermi, attrezzature obsolete, capitali esteri – e non solo – in fuga, inflazione alle stelle da far impallidire quanto accadde durante la Repubblica di Weimar, all’indomani della Grande guerra. Che fu levatrice dell’avvento al potere di Adolf Hitler. Nicolás Maduro Moros, l’attuale presidente del Venezuela, un passato da sindacalista, non ha fatto altro che peggiorare le cose. Ottenendo, tuttavia, il sostegno di Di Battista, in un battibecco al vetriolo con Matteo Salvini. Che non ha mai visto di buon occhio un “regime di sinistra” che affama il suo popolo e governa con la “paura”.

C’è quindi materiale per un’ampia riflessione, che non riguardi solo la politica economica, ma l’onda più lunga della storia. Argomento rispetto al quale i 5 Stelle, con il loro nuovismo un po’ naif, non sembrano particolarmente attrezzati. E purtroppo i risultati si vedono tutti. Né basta illudersi che le nuove tecnologie, in un periodo più o meno lontano, possano far nascere il nuovo mondo. Esiste una lunga transizione che va comunque governata: senza fughe in avanti e concessioni demagogiche. Nell’ormai lontano 1997, Lionel Jospin, Primo ministro di Francia, sotto la presidenza di Jacques Chirac, introdusse per legge l’orario delle 35 ore. Ed iniziò il lungo declino dell’economia francese. Resse per due anni, raggiungendo nel 1999, il picco più alto nel surplus della bilancia dei pagamenti. Ma da allora fu poi un lento e continuo regredire. Fino all’emergere di un deficit strutturale, dopo la grande crisi del 2007.

Ci sono voluti anni per tornare indietro. Ci sta provando l’attuale presidente Emmanuel Macron, alle prese con abitudini radicate da oltre 20 anni di concessioni. Ma anche in quel caso, se si vuol riprendere la strada dello sviluppo, che passa inevitabilmente per un maggior impegno individuale sul lavoro, le scelte sono obbligate. Come del resto è avvenuto in Germania con le riforme del mercato del lavoro di Peter Hartz. Insomma il mondo gira in una direzione opposta e contraria all’affabulazione grillina. Naturalmente vi può essere sempre un Savonarola, bruciato sul rogo, per aver “predicato cose nuove”. E poi riabilitato. Ma non è cosa che capita tutti i giorni.

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