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Pompeo al Cairo punta il dito contro l’Iran e rafforza la sinergia con il Golfo

trump pompeo

“La buona notizia è questa. L’era della vergogna americana autoinflitta è finita, così come le politiche che hanno prodotto tanta inutile sofferenza. Ora arriva il vero nuovo inizio”. È il cuore del  contro-discorso dall’American University del Cairo con cui il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha delineato i confini della strategia trumpiana in Medio Oriente. Il luogo è simbolico: la capitale del più popoloso paese del mondo arabo ha ospitato nel 2009 il famoso discorso con cui Barack Obama aveva chiesto tra l’altro ai leader regionali autoritari di concedere maggiori aperture (e per questo è visto come prodromo delle Primavere Arabe).

Obama, nel discorso che viene considerato come uno dei manifesti della dottrina liberal in politica estera, cercava di usare il peso politico americano per pressare i Paesi mediorientali ad allinearsi verso i fondamenti del pensiero liberale occidentale — un ruolo che rientra nell’accezione critica del “globalismo” intervista – e nel frattempo si mostrava aperto, cercava di rimediare a quelli che considerava errori (su tutti la Guerra d’Iraq) e piantava le basi per la riapertura delle relazioni con l’Iran. Trump, via Pompeo (già in precedenza usato altre volte per scopi divulgativi simili), ha delineato la sua politica di riequilibrio e disingaggio dagli affari generali mediorentali, che però si abbina all’aumento del confronto con l’Iran (considerato un interesse di carattere nazionale per gli Usa).

Pompeo ha detto che quando Obama aveva parlato nel 2009 al mondo musulmano dalla sale dell’università del Cairo, era il 4 aprile del 2009, aveva “sottovalutato la tenacia e brutalità dell’islamismo radicale” – è l’accusa classica dei conservatori americani ad Obama – e quello che diceva era basato su “incomprensioni cruciali” delle dinamiche regionali. Del lavoro geopolitico maligno di Teheran in modo particolare. Obama stava costruendo la strade verso il Nuke Deal – l’accordo chiuso dopo anni di trattative nel 2015 con un sistema multilaterale che ha portato la Repubblica islamica ad accettare il congelamento del programma nucleare. Trump, da quell’accordo – definito già ai tempi della firma il “peggiore di sempre” – ha tirato fuori gli Stati Uniti.

L’amministrazione Trump ha stretto a doppio nodo i rapporti con gli alleati americani nel Golfo e nel Medio Oriente, che condividono l’Iran come un nemico, e la politica della Casa Bianca anche su questo è tarata. Pompeo ha detto che i negoziati obamiani con la parte pseudo-moderata dell’Iran, quella rappresentata dal presidente Hassan Rouhani, non sono bastati a fermare le aspirazioni del regime teocratico sciita che odia l’Occidente e intende dominare il Medio Oriente.

Per il segretario di Stato occorre creare un sistema di “contenimento” dell’avventurismo regionale iraniano – isolare l’Iran è la visione che trova sponde a Riad, Abu Dhabi e Gerusalemme, su una linea di avvicinamento catalizzata da Washington. Le nazioni del Medio Oriente “non potranno mai godere della sicurezza, raggiungere la stabilità economica o far avanzare i sogni dei loro popoli se il regime rivoluzionario dell’Iran persiste nella strada attuale”, ha detto.

Pompeo – che oltre all’Egitto ha visitato diversi altri paesi della regione negli ultimi giorni – ha anche spiegato che gli Stati Uniti intendono “espellere fino all’ultimo iraniano” dalla Siria, ed è un’affermazione che si allinea con le dichiarazioni fatte negli ultimi mesi da altre parti dell’amministrazione Trump (il consigliere John Bolton diceva che sarebbe stato l’obiettivo diplomatico principale per gli Usa), ma va contro un dettame del presidente – il ritiro dalla Siria annunciato il 19 dicembre. Quello che dice Pompeo è però più realistico dell’annuncio di Trump, che nel corso dei giorni ha avuto delle revisioni piuttosto profonde (la principale: procederà molto lentamente).

Però, gli iraniani in Siria – dove si trovano da anni, per aver puntellato la stabilità del regime di Assad – sono considerati una minaccia da Washington, dall’Arabia Saudita e soprattutto da Israele: contenerli è possibile, ma molto complicato farlo soltanto seguendo la strada della diplomazia, come ha detto anche Pompeo, perché l’impegno al fianco di Damasco ha costruito un substrato di relazioni molto profonde, e con la riqualificazione in corso del rais Bashar el Assad sembra difficile che gli ayatollah usciranno facilmente dal futuro del paese.

La strategia delineata dal segretario di Stato è piuttosto aderente con un pensiero americano che è diventato più chiaro per lo meno dal secondo mandato di Obama – che su queste linee era stato piuttosto diverso dal primo, e dal discorso del Cairo del 2009. Gli Stati Uniti intendono mettersi in una posizione più protetta su certe questioni, non intendono più interferire con alcune dinamiche in corso in altri paesi, ma mantengono la propria dimensione strategica in quell’area cruciale per bilanciamenti globali (quelli con Russia e Cina). Dimensione che si declina sostanzialmente nel contrasto alla diffusione iraniana (che invece non trova troppi ostacoli a Mosca e Pechino) in appoggio alla politica degli alleati regionali.

Di questa non interferenza in certi affari, negli ultimi mesi se n’è avuta dimostrazione col caso Khashoggi per esempio. L’uccisione del giornalista saudita del Washington Post nel consolato del suo paese a Istanbul è stata affrontata dagli Stati Uniti, soprattutto dalla Casa Bianca, creando un firewall per proteggere l’erede al trono Mohammed bin Salman dalle accuse di coinvolgimento – mentre il Congresso ha preso posizioni più pro-diritti. Lo stesso sullo Yemen: Riad sta guidando una coalizione di paesi in difesa del legittimo governo di Sanaa, scalzato dal potere dai ribelli indipendentisti Houthi, collegati in maniera sfumata all’Iran. La campagna ha ricevuto molte critiche per le vittime civili e i tanti danni collaterali, ma dal 2015 (era Obama) gli Stati Uniti l’hanno sempre tacitamente sostenuta, e ne sono parte anche se con un coinvolgimento modesto e discreto.


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