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Bolton (da Israele) annuncia che gli Stati Uniti non si ritireranno dalla Siria

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In teoria il ritiro dalla Siria annunciato dal presidente americano, Donald Trump, doveva compiersi in poche settimane, ma tutto sarà rallentato – per almeno quattro mesi, poi si vedrà – perché la Casa Bianca si è probabilmente resa conto che i tempi non erano giusti. Non solo quelli tecnici, secondo richieste del Pentagono (il cui capo s’è dimesso subito in polemica, con smottamenti interni successivi, fino alle dimissioni del chief of staff della Difesa, Kevin Sweeney, sabato scorso). Anche quelli politico-geopolitici: consiglieri, analisti, membri del Congresso, alleati internazionali, hanno tutti sconsigliato Trump sul ritiro. E il presidente pare essersi ricreduto: “Non ho mai detto di farlo velocemente”, ha detto ai giornalisti ieri in partenza per un meeting con la Homeland Security a Camp David.

Nei giorni scorsi il consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, è stato spedito in Israele, a rassicurare uno dei principali partner – tra i più nervosi e scontenti del passo indietro americano. Bolton ha spiegato che i circa duemila soldati delle forze speciali americane non si allontaneranno troppo dal territorio siriano, e continueranno la lotta contro il Califfato dall’Iraq. Ma non subito, quando sarà. E comunque, l’intenzione americana è di mantenere una guarnigione nell’area di al Tanf, da dove sono partiti molti dei raid verso il rifugio baghadista lungo il Corridoi dell’Eufrate.

Ma la presenza ad al Tanf, nel sud della Siria, è importante per Israele non solo per questo, ma perché – come Bolton aveva spiegato in passato – serve da punto di equilibrio contro l’influenza iraniana nel Paese di Bashar el Assad. Perché da lì gli americani monitorano certi traffici da Teheran (chi segue il conflitto siriano ricorderà che mesi fa fu il teatro di uno scontro armato tra americani e truppe delle milizie sciite iraniane). Il consigliere americano ha detto anche che Washington vede in modo “molto favorevole” gli attacchi aerei mirati con cui gli israeliani colpiscono le installazioni siriane usate dagli iraniani per passare armi ai gruppi combattenti sciiti che difendono Assad – come i libanesi di Haezbollah – e odiano lo stato ebraico.

Affermazioni che controbilanciano un’uscita infelice avuta dal presidente Trump durante una riunione di gabinetto trasformata in conferenza stampa qualche giorno fa, quando parlando del ritiro dallo Studio Ovale disse che “l’Iran in Siria può fare ciò che vuole”. Replica secca, nel giro di meno di un’ora sullo Yedioth Ahronoth: “È triste che il presidente americano non guardi il materiale d’intelligence che gli passiamo”, diceva una fonte del governo israeliano. In effetti, da almeno cinque anni Israele è impegnata in un’operazione di controllo sulle infiltrazioni dell’Iran in Siria, che ogni tanto (almeno già duecento volte nel corso del tempo) è sfociata in attacchi aerei mirati contro quei passaggi di armi – attività che sono il principale asset di rafforzamento dell’influenza iraniana in Medio Oriente. Trump scivolava e sembrava dire di fregarsene (anche se più volte aveva detto di voler combattere quell’espansionismo degli ayatollah), Bolton ha rassicurato: siamo “molto favorevoli” a quel che fate.

La Us Strategy per la Siria è confusa e spezzettata, ma una cosa sta diventando sempre più chiara: gli americani non lasceranno il paese. Il presidente è ansioso di uscire, come da promessa elettorale, ma il pantano è enorme e tirarsene fuori non può che sconvolgere equilibri già inesistenti che avvolgono tutta la regione mediorientale, dove gli Stati Uniti devono tener conto di amici pretenziosi come Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi, alleati complicati come Egitto e Turchia, nemici velenosi come Russia e Iran.

In questa fase di revisione di quello che nei fatti è sembrato come un lancio elettorale senza copertura strategica – il ritiro dalla Siria, appunto – si parla anche di una “Arab-Strategy” per Trump, ossia del complesso sistema con cui la Casa Bianca vorrebbe man mano passare la pratica in mano ai suoi più stretti alleati nel Golfo. Sarebbe una manovra articolata che in fin dei conti potrebbe non scontentare nemmeno Israele, che con quelle monarchie sunnite delle regione condivide l’inimicizia esistenziale nei confronti della Repubblica islamica sciita di Teheran (un punto che, con la catalizzazione americana, sta avvicinando mondi distanti come Riad e Tel Aviv).

Trump pensa alla ricostruzione dei rapporti diplomatici tra quei paesi e Damasco (gli Emirati e il Bahrein hanno già riaperto le proprie ambasciate nella capitale siriana, e altri seguiranno) e di quelli politici internazionali (la Siria potrebbe essere riammessa nella Lega Araba). Poi alla ricostruzione, dove i ricchi paesi del Golfo potrebbero dare una mano (la vigilia di Natale ha parlato del contributo saudita, che però ancora non è tangibile). E infine a una presenza militare stile peacekeeping a garanzia di una fase di transizione (Egitto, Marocco, Emirati Arabi, sarebbero i candidati per mettere i propri soldati in sostituzione degli americani).

E mentre il Congresso prepara misure bipartisan per alzare uno stretto regime sanzionatorio contro il regime di Assad, si starebbe pensando a un sistema di esclusione, simile agli waiver per l’Iran. Servirebbe a permettere a certi paesi (leggasi quelli del Golfo) di lavorare in Siria e con la Siria, senza correre il rischio di cadere in sanzioni secondarie per i business americani. L’Arab-Strat ha un valore per Trump, se non fosse che – stando a quel che dicono le fonti dal Golfo dei media, compreso questo – l’idea è sul tavolo solo a Washington, e non ancora avallata dagli alleati regionali americani.

Chi pagherebbe di più il prezzo della strategia sarebbe la Turchia. La presenza, anche militare, di quegli altri paesi frenerebbe del tutto i desideri turchi. Ankara vorrebbe infatti lanciare un’azione armata contro i curdi che si trovano al nord della Siria, territorio etnicamente di origine, liberato tramite l’appoggio degli americani – anche a terra – dall’occupazione del Califfato. Bolton ha parlato anche di questo da Israele, mentre oggi arriverà nella capitale turca prima di rientrare negli Stati Uniti.

Il consigliere, uno dei più più importanti tra quelli che avvolgono la Casa Bianca, ha detto che il ritiro americano dovrà essere funzionale non solo alla sconfitta dell’Is, ma anche alla garanzia che la Turchia non attacchi i curdi siriani (oltre al bilanciamento con l’Iran). Le dichiarazioni di Bolton hanno seguito di pochi giorni quelle del segretario di Stato, Mike Pompeo, che ha detto che non è accettabile designare come gruppo terroristico una milizia che ha aiutato gli americani a combattere lo Stato islamico – il riferimento è all’Ypg curdo-siriano, che per la Turchia è un’entità terroristica perché alleata del Pkk, e che per gli Usa è tuttora un partner anti-Isis sul terreno. Domenica, a Face The Nation, il senatore Lindsey Graham, consigliere sugli esteri di Trump che ha lavorato per frenare l’impeto presidenziale sulla Siria, ha ricapitolato le priorità per cui i soldati americani “resteranno”: primo, sconfiggere ogni scoria dell’Is; secondo, dissuadere l’Iran; terzo evitare che la Turchia “macelli i curdi siriani”.

Se l’uscita dalla Siria veniva finora dipinta come un accordo con tra Trump e Recep Tayyp Erdogan, raggiunto durante una telefonata in cui l’americano aveva delegato l’affare siriano ad Ankara, col passare dei giorni la dimensione di questa narrazione si restringe. C’era un piano di Bolton, che aveva pensato di inviare un contingente turco al nord siriano in sostituzione dei soldati, ma non è chiaro quanto ci si possa fidare, e il Pentagono già non è d’accordo.

Poi c’è un motivo velenoso che accompagna questo nuovo allontanamento tra Washington e Ankara: i turchi avrebbero rifiutato l’offerta americana sui sistemi da difesa aerea Patriot (troppo costosi, troppi pochi know how trasferiti, vincolante l’uscita da accordi con Mosca su sistemi simili, gli S-400, secondo le info dettagliate dallo Yeni Safak, velina di Erdogan, confermate in un passaggio di una dichiarazione degli Esteri).



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