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Il dipartimento di Stato accusa Assad per la morte di Colvin e chiede alla Russia di mollare il raìs

Il dipartimento di Stato degli Stati Uniti, attraverso una dichiarazione del suo portavoce Robert Palladino, ha preso una posizione forte contro il regime guidato dal raìs siriano Bashar al Assad e la Russia, sua sponsor internazionale e partner sul campo nella guerra civile. La diplomazia americana chiede a Mosca “di cessare la protezione del regime e di sostenere gli sforzi internazionali per la giustizia e la responsabilità” e l’occasione è data dalle accuse che il tribunale distrettuale del District of Columbia (il distretto federale dove si trova Washington) ha alzato contro il regime siriano, considerandolo colpevole della morte della giornalista Marie Colvin, e per la quale ha chiesto a Damasco di pagare 302 milioni di dollari di risarcimento.

Colvin, statunitense da anni a Londra, era una reporter di guerra molto famosa che lavorava per l’inglese Sunday Times. Rimase uccisa nel 2012 sotto un bombardamento e secondo la corte americana “è stata presa di mira per la sua professione”, con lo scopo di “mettere a tacere coloro che riferivano del crescente movimento di opposizione nel Paese” e per questo “si è verificata una violazione del diritto internazionale”. Secondo il tribunale di Dc, il governo siriano sapeva che all’interno del media center di Homs, nel distretto di Baba Amr, c’erano Colvin e altri giornalisti scomodi – che stavano raccontando le brutalità del regime contro manifestanti e ribelli, in tempi in cui la rivoluzione siriana non aveva ancora preso le derive jihadiste che hanno attecchito tra alcuni gruppi anti-Assad anche come risposta estrema alla repressione violentissima.

La giornalista 56enne fu uccisa sotto una pioggia di missili il 22 febbraio di sette anni fa, e insieme a lei morirono altre persone tra cui il fotoreporter francese Rémi Ochlik. La giudice americana che ha emesso la condanna, e dunque avviato una caccia per reperire i fondi (che potrebbero essere stati già individuati dagli Stati Uniti tra il miliardo di asset internazionali di Assad, attualmente congelati dalle sanzioni), sostiene che l’attacco contro il centro stampa fu pianificato dall’esercito siriano. “Funzionari al più alto livello del governo siriano pianificarono attentamente ed eseguirono l’assalto al media center di Baba Amr con lo specifico intento di uccidere i giornalisti all’interno”.

Colvin è una dei 126 giornalisti uccisi in Siria dal 2011 – anno in cui iniziarono le proteste contro Assad – a oggi: gli Stati Uniti, dice la dichiarazione di Palladino, “cercano di far luce sugli abusi commessi dal regime di Assad, compreso l’assassinio di giornalisti”. “Continuiamo a lottare contro la detenzione arbitraria di civili, a spingere per meccanismi efficaci a rendere responsabili e a sostenere la documentazione e le indagini sui crimini del regime di Assad”. È una dichiarazione che sembra avere uno stampo idealista e globalista, posizioni distanti dalla linea di pensiero dominante dell’amministrazione Trump, ma spesso occupate dal dipartimento di Stato guidato da Mike Pompeo.

Interessante che nello statement di Foggy Bottom sia contenuto pure quel richiamo alla Russia, coinvolgendo direttamente Mosca sulle malefatte del regime assadista. Ancora più interessante se si considera che la dichiarazione di Palladino è arrivata poche ore dopo quella ancora più importante, pesante e per certi versi coraggiosa, con cui Pompeo ha annunciato la decisione degli Stati Uniti di uscire da un trattato missilistico che dal 1987 controllava parte degli armamenti nucleari, incolpando Mosca delle continue violazione osservate fin dal 2008 e denunciate continuamente a partire dal 2014 (periodi in cui il governo americano era guidato dal liberal Barack Obama, antipode del trumpismo).

Val la pena notare che dal 18 gennaio, secondo quanto dichiarato dal presidente Donald Trump, le truppe americane dispiegate in Siria col doppio compito di combattere l’Is e mantenere un equilibrio di forze con gli attori in campo (vedi la Russia, o l’Iran, o lo stesso regime), sarebbero dovute rientrare nelle loro basi statunitensi. I soldati invece sono ancora lì, ed è del tutto probabile che vi resteranno a lungo, magari con qualche alleggerimento. È noto che Washington abbia un’idea per la Siria abbastanza diversa dal concetto di ritiro: da una parte pensa a una politica di pressione contro la presidenza, verso modifiche costituzionali e un percorso elettorale, e creando un sistema di “pressione politica” – come l’aveva definito l’inviato speciale James Jeffrey – anche contro Iran e Russia; il tutto bilanciato dal mantenimento di una presenza militare già assicurata agli alleati regionali. La condanna ad Assad per il caso Colvin rientra in quel sistema di pressioni contro il regime.

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