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L’Italia e i fondi Ue. Perché non riusciamo a spenderli

Negli ultimi giorni è riemersa nei media la critica alle nostre pubbliche amministrazioni perché non riescono a spendere le risorse finanziarie assegnateci dai vari fondi europei. La ministra Giulia Bongiorno è arrivata a prevedere nel suo ddL del 21/12/18 dedicato al miglioramento della Pubblica amministrazione che i futuri dirigenti pubblici dovranno dimostrare di possedere una conoscenza adeguata del funzionamento dei fondi europei (qui un approfondimento su Formiche.net).
Questo dibattito è (a) sbagliato nella sua impostazione e (b) , probabilmente, non ha ragione di essere.

Iniziamo dalla seconda considerazione: questo dibattito non ha ragione di essere. Considerare la Ue fonte di risorse finanziarie significa non aver capito che cosa la Ue è. Il budget annuale dell’Europa si aggira intorno ai 150 miliardi di euro, laddove il budget della sola Italia supera gli 800 miliardi di Euro. La Ue non è un centro di risorse finanziarie ma un centro di codecisione relative alle regole che devono presiedere al funzionamento del mercato interno. A Bruxelles non ci sono soldi ma c’è il modo per fare i soldi, negoziando standards tecnici che permettano alle nostre tecnologie di affermarsi nel mercato interno.

Ma in che cosa consistono i fondi Ue che non riusciamo a spendere? Innanzi tutto si tratta di poca cosa. Basti pensare che il 50% del budget Ue è dedicato all’agricoltura e che circa il 30% ai fondi di coesione che sono destinati agli ultimi arrivati nella famiglia Ue (paesi ex comunisti, Malta e Cipro). Anche se quantitativamente limitati, è corretto chiedersi perché non riusciamo a spendere questi spiccioli che pur ci spetterebbero. Qui la cosa si fa interessante. Queste risorse vengono assegnate, per lo più, con il principio del co – finanziamento. Cioè a dire, queste risorse vengono assegnate a condizione che lo Stato Membro assegnatario destini al progetto sue risorse e, cosa intrigante, a condizione che il progetto risponda a certi criteri di tecnica di gestione dei progetti.

È proprio su queste condizioni tecniche che la nostra amministrazione inciampa. I Paesi che hanno maggior successo nello spendere le risorse Ue sono tutti caratterizzati da una contabilità pubblica che, sul versante, delle spese è articolata secondo la destinazione della spesa (ad esempio “pasti per i non abbienti”) e non secondo la natura della spesa (ad esempio “carne in scatola”, “pesce congelato” etc.). Si tratta di Paesi la cui contabilità pubblica è orientata al principio del progetto, della mission. Spendo non tanto per acquisire e costruire qualcosa (fare un ponte o organizzare un corso di formazione) ma per raggiungere un obiettivo (aumentare il Pil, ridurre la disoccupazione). I Paesi che tradizionalmente hanno una contabilità pubblica articolata in questo modo non hanno difficoltà ad utilizzare i fondi Ue. Chi, come l’Italia, non è abituata a spendere le risorse secondo obiettivi si trova a mal partito.

A questo punto vanno fatte tre considerazioni. La prima riguarda il valore dei contributi Ue. Tale valore non consiste nell’ammontare delle risorse finanziarie messe a disposizione! Il vero valore dei cofinanziamenti Ue consiste nel loro valore pedagogico, nel fatto, cioè, che si promuovono tecniche efficaci di utilizzo delle risorse finanziarie pubbliche. Per poter utilizzare i fondi non bisogna imparare le norme relative ai fondi europei ma bisogna imparare a fare e gestire dei progetti. L’obiettivo del DdL della Bongiorno di creare dei dirigenti pubblici che conoscano i meccanismi dei fondi Ue è mal centrato.

La seconda considerazione riguarda il fatto che a partire dalle Legge 42 del 2009 e più precisamente dal dlgs 91 del 2011 (relativo alla contabilità ministeriale) e al dlgs 118 del 2011 (relativo alla contabilità delle Regioni e delle autonomie locali) la nostra contabilità dovrebbe ispirarsi al principio di una contabilità orientata alla destinazione della spesa, all’obiettivo per cui si spendono le risorse e non a che cosa si acquista con le risorse spese. Orbene, a livello ministeriale il dettame del dlgs 91/2011 è sistematicamente ignorato e si continua ad operare come nel passato. Il dlgs 118/2011 sta vivendo un tentativo di implementazione nei Comuni (non nelle Regioni e non nelle Asl), tentativo ancora molto imperfetto (per un’anali dei tentativi di implementazione della contabilità per missioni nei nostri enti locali rimando al mio M. Balducci, Rendre des comptes pou rendre compte: l’évolution de la comptabilité des collectivités locales en Italie, Revue française d’administration publique, n° 160, 2016, pp. 1079-1107).

La terza considerazione riguarda il caso della Spagna. Viene spesso citato il fatto che la Spagna riesca a spendere quasi tutti i fondi Ue assegnatile. Il motivo è molto semplice. In Italia, le Regioni del Sud, di fronte a fondi nazionali, spendibili senza essere obbligati a rispettare canoni tecnici rigidi, e fondi Ue che richiedono una contabilità gestionale attenta, si preferisce concentrarsi sui fondi utilizzabili “facilmente”. Il vantaggio della Spagna sta nel fatto che le uniche risorse disponibili sono le risorse Ue.


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