Ci sono due novità parziali ma interessanti su quel che riguarda il dossier Cina-Usa, ed escono direttamente da alcuni incontri che l’inviato speciale del governo di Pechino, il vicepremier Liu He (delegato a tutte le pratiche economiche), ha avuto a Washington con alti funzionari dell’amministrazione Trump, compreso un faccia a faccia nello Studio Ovale col presidente durante il quale ha anche letto ad alta voce una lettera che il capo di stato cinese ha inviato all’americano.
Donald Trump ha fatto capire che sta considerando l’idea di allungare il termine fissato per il 1 marzo entro il quale chiudere con la Cina un qualche genere di accordo commerciale – altrimenti, aveva minacciato l’americano quando all’ultimo G20 era stato concordato con l’omologo cinese Xi Jinping il piano dei contatti in corso, i dazi saliranno dal 10 al 25% su 200 miliardi di dollari di prodotti Made in China importati dagli Stati Uniti.
Anche solo la possibilità dello spostamento della data è un indubbio segnale che i negoziati portati avanti dai delegati dei due paesi – che negli ultimi due mesi hanno viaggiato tra Washington e Pechino – non stanno andando male. Secondo le informazioni che circolano sui media americani in questo momento, la Cina si sarebbe impegnata ad acquistare 30 miliardi di dollari in più di beni prodotti negli Stati Uniti, e questo sarebbe buono per Trump, perché è qualcosa che si può facilmente rivendere come un successo sul campo dello sbilancio commerciale che gli Stati Uniti soffrono con la Cina (un argomento, quello del riequilibrio, su cui la Casa Bianca sta battendo molto e che è simbolicamente rappresentato dal piano del commercio, ma coinvolge per intero il ruolo americano nel mondo).
Tra le cose che stanno prendendo consistenza in queste ore, c’è anche l’incontro Trump-Xi (il cinese in questi giorni è stato impegnato a ricevere a Pechino l’erede al trono saudita, uno dei migliori, se non il migliore, alleato americano, e chissà se le relazioni con Washington non sono finite nelle discussioni). Il vertice si dovrebbe svolgersi a fine marzo a Mar-a-Lago, in Florida, dove il presidente americano ha una tenuta all’interno di un golf-resort utilizzata come residenza da relax e luogo ideale per creare un’atmosfera meno formale attorno a questo genere delicatissimo di meeting. Anche qui, se si torna a parlare di questo incontro è segno che, almeno per il momento, le cose non stanno andando male.
Nelle scorse settimane, i rumors dicevano che Trump avrebbe visto il cinese in Vietnam, a corollario di un altro vertice sensibile che l’americano ha in programma il 27 e il 28 febbraio: quello col satrapo nordcoreano Kim Jong-un. Il dossier è anche un punto di contatto tra Stati Uniti e Cina, ma era stato lo stesso Trump a dire che non avrebbe incontrato Xi prima della scadenza fissata a inizio marzo, e soprattutto senza un qualche accordo raggiunto durante i negoziati in corso.
Gli accordi a questo punto ci sarebbero – in realtà sarebbero più di uno, e più che altro sono una serie di memorandum di intesa (MuO) che secondo il Trade Representative americano, Robert Lighthizer (uno che di solito non ha un approccio morbido sul dossier), sono molto meglio di qualsiasi ultimatum; ieri, però Trump ha pubblicamente detto a Lighthizer che non si possono chiamare MuO discussioni sul commercio, ma si deve parlare in modo più classico di “accordi” (o niente).
Il terreno per un nuovo incontro presidenziale Usa-Cina comunque potrebbe essere pronto. Anche se, secondo le informazioni disponibili, sembra che sul tema del furto di proprietà intellettuale non ci sia ancora intesa. Per gli americani è un argomento importante, perché accusano Pechino di sottrarre (sia con azioni di spionaggio che con imposizioni legislative sulla condivisione di informazioni nel caso di joint-venture aziendali sino-americane) i dati dei progetti studiati dalle ditte statunitensi per avvantaggiarsi a livello di competizione aziendale.
Ossia, detto tagliato con l’accetta, Washington dice: i cinesi copiano e riproducono idee altrui, per questo risparmiano tempo e soldi in ricerca e sviluppo e possono mantenere prezzi più bassi sui prodotti, alterando il mercato. Ovviamente Pechino nega, rivendica investimenti – l’oggetto del contendere è sopratutto il campo dell’hi-tech – e laboratori di studio sempre più sofisticati: anche soltanto voler affrontare la questione potrebbe sembrare un’ammissione di colpa per la Cina.
Da qui, arriva la seconda notizia interessante. Ieri, come ha fatto notare una reporter della CNBC, il presidente Trump ha detto che lui potrebbe anche discutere con i procuratori americani il caso della Huawei e del 5G, facendo passare l’idea che la questione potrebbe essere inserita nell’ambito dei negoziati in corso. Qualcosa di simile successe già con la Zte, un’altra ditta di telecomunicazioni finita sotto accusa negli Stati Uniti: la Huawei è l’oggetto di un grande fronte ad excludendum che Washington sta cercando di costruire per tagliare fuori la ditta – e dunque possibilmente la Cina – dai progetti del 5G, l’infrastruttura tecnologica che permetterà la diffusione del pacchetto dati mobile del futuro (quello che dovrebbe rivoluzionare diverse realtà, dalle telecomunicazioni al campo medico, per fare due esempi veloci).
Giovedì, intervistato da Maria Bortiromo di Fox News, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha chiarito (come spesso fa) i contorni di questo fronte anti-Cina in ottica 5G. Un passaggio: “Se un paese adotta questo (il 5G Made in China, ndr) e lo inserisce in alcuni dei suoi sistemi di informazione critici, [noi Stati Uniti] non saremo in grado di condividere le informazioni con loro, non saremo in grado di lavorare al loro fianco. In alcuni casi, c’è il rischio di non essere nemmeno in grado di co-localizzare risorse americane”. Insomma, il rischio è l’isolamento, perché, ha spiegato Pompeo, Washington teme che le tecnologie cinesi siano state progettate anche per scopi militari e di spionaggio.
Però, il segretario ha dovuto ammettere che il piano americano di creare quel gruppo di paesi anti-Cina sta avendo problemi: in effetti, nelle scorse settimane prima la Germania (come ha spiegato il Wall Street Journal) e poi anche il Regno Unito hanno “respinto il divieto totale” che gli Stati Uniti vogliono imporre su Huawei (nota: un altro paese che nonostante le pressioni americane non ha ancora preso posizioni nette sull’azienda cinese è l’Italia).
Passi per i tedeschi, che hanno una fase di poco feeling con Washington, ma la posizione non totalmente allineata presa da Londra è un dato, perché normalmente su certe questioni che gli americani dichiarano di sicurezza nazionale i membri del Five Eyes difficilmente svicolano seguendo linee personali. Mercoledì il National Cyber Security Centre (NCSC) inglese ha pubblicato un lungo post sul suo blog per spiegare come fanno a chiudere certe porte, lasciando aperto il 5G anche a Huawei: la pratica tuttavia è sotto revisione e il governo di Londra deciderà formalmente in primavera. Magari anche sulla base di questo genere di difficoltà (che gli Usa stanno avendo anche nel persuadere l’India, per esempio) Trump potrebbe mettere la questione Huawei sul piatto negoziale con la Cina.
(Foto: Twitter, @USTradeRep)