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Perché vale ancora la pena sperare in un sì alle trivelle

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L’assemblea svoltasi ieri al Comune di Ravenna contro l’emendamento “blocca trivelle” al decreto sulle semplificazioni in discussione al Senato ha reso ancora una volta evidente, per l’ampiezza della partecipazione che l’ha caratterizzata, che non solo la città e il suo mondo produttivo, ma anche l’intera regione emiliano-romagnola e la Confindustria nazionale sono schierate frontalmente contro una decisione governativa che appare un vero suicidio agli occhi del vasto comparto dell’oil&gas operante nel Paese, con la possibile perdita di circa 100 mila posti di lavoro fra gli addetti diretti impiegati nella città adriatica e tutti coloro che operano in Italia nella filiera lunga del settore.

Una decisione, quella tradottasi nell’emendamento contestato, che contrasta radicalmente con gli interessi di un Paese che – è appena il caso di ricordarlo – importa gran parte dei combustibili fossili (petrolio e gas) necessari per i suoi fabbisogni (crescenti) e che pertanto dovrebbe valorizzare i suoi giacimenti già individuati, favorendo il reperimento di quelli ritenuti probabili alla luce delle caratteristiche geologiche di vaste aree sulla terraferma e di fondali marini che piccole e grandi compagnie petrolifere vorrebbero esplorare.

Dall’assemblea di Ravenna, dunque, sono scaturiti da una parte la volontà di partecipare in massa alla grande manifestazione di Cgil, Cisl e Uil di sabato 9 a Roma che riempirà di lavoratori, disoccupati, studenti e pensionati Piazza S.Giovanni come accaduto in tante altre occasioni e, dall’altra, l’invito al governo e al parlamento a ritirare l’emendamento, aprendo subito un tavolo di concertazione con tutti i soggetti interessati per favorire invece un uso programmato e sempre più ecosostenibile delle risorse minerarie nazionali che, in realtà, sono più ricche di quanto non si pensasse sino a pochi anni orsono.

Ma se il governo e la sua maggioranza decidessero di ignorare la mobilitazione corale della città di Ravenna e degli interessi che guardano alle sue imprese e ai loro addetti, approvando senza modifiche il Decreto semplificazioni, allora si annunciano cause e ricorsi ad arbitrati di molti big player – fra cui Eni, Shell ed Edison – contro una decisione che rischia di mettere a repentaglio i massicci investimenti già realizzati, per “danno emergente” e “lucro cessante”, come dovrebbe ben sapere più dei suoi ministri proprio il premier Conte che in materia di contenziosi ed arbitrati ha una lunga e consolidata esperienza professionale.

Certo, i tempi di risoluzione di tali contenziosi sono particolarmente lunghi e se anche si risolvessero in favore delle imprese ricorrenti, nel frattempo non potrebbero impedire la dispersione sul territorio nazionale di patrimoni tecnologici, professionali e finanziari di assoluto rilievo, il cui pieno impiego invece potrebbe continuare a contribuire alla produzione del Pil italiano e al mantenimento dell’occupazione. Già in altra occasione su queste stesse colonne ci siamo chiesti se tutto ciò abbia razionalità economica e una qualche utilità per l’intero Paese.

Ma ora la mobilitazione dei lavoratori, delle imprese e delle istituzioni del Ravennate e dell’intera Emilia Romagna – cui guardano con partecipe attenzione anche le aziende e gli addetti dell’oil&gas pugliese, meno consistente però per numero di società e di occupati, dopo la scomparsa a Taranto della Belleli off-shore – pone in evidenza che il confronto dialettico fra i territori interessati e il governo si sta facendo sempre più stringente, approfondendo un’altra linea di frattura fra i componenti del governo gialloverde. Ma è proprio del tutto vano sperare in un sussulto di resipiscenza da parte dell’esecutivo, o dei parlamentari di maggioranza resisi disponibili (finalmente) a cassare quell’emendamento?

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