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Basta guerre senza fine. Cos’ha detto Trump su Siria e Afghanistan

“Le grandi nazioni non combattono guerre senza fine”, ha detto il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, durante il discorso sullo stato dell’Unione (Sotu), riferendosi a Siria e Afghanistan, due conflitti che impegnano i militari americani e da cui lui stesso ha promesso di tirar fuori le truppe. Sono queste guerre, insieme alle “ridicole indagini partigiane” (il Russiagate, ndr) che rallentano l’attuale “miracolo economico” americano.

“Oggi abbiamo liberato praticamente tutto quel territorio dalla morsa di questi mostri sanguinari”, ha detto Trump. “Ora, mentre lavoriamo con i nostri alleati per distruggere i resti di Isis, è il momento di dare ai nostri coraggiosi guerrieri in Siria un caloroso benvenuto a casa”.

Poche ore prima il Senato, controllato dai Repubblicani, aveva approvato a larga maggioranza una legge contente un emendamento promosso dal leader della maggioranza, Mitch McConnell, in cui si chiede al governo di evitare qualsiasi “ritiro precipitoso” da Siria e Afganistan – l’emendamento invita l’amministrazione a “certificare” che le missioni siano state compiute del tutto prima di ritirarsi (concetto abbastanza utopico ma con valore politico, ndr). Un provvedimento che indica un tema di divisione tra Senato (e Partito Repubblicano) e Casa Bianca, ma di cui i legislatori avevano evidentemente sentito la necessità, dato che Trump il 19 dicembre aveva annunciato pubblicamente e in forma unilaterale (non aveva avvisato nemmeno gli alleati più stretti, nemmeno parti della sua amministrazione) che i soldati sarebbero tornati a casa dal territorio siriano nel giro di un mese – in realtà non ci sono state variazioni nel contingente americano in Siria, se non qualche spostamento di equipaggiamenti non necessari.

Mentre in Afghanistan tutto sarà funzionale all’esito dei colloqui in corso con i Talebani (che pare stiano andando piuttosto bene), val la pena concentrarsi sulla Siria, che è un dossier che Trump può trattare con maggiore disinvoltura visto che gli Stati Uniti non sono appesantiti da vincoli di alleanza e impegni internazionali (che al presidente pesano), come con la Nato in Afghanistan.

C’è una grossa porzione di pianificatori statunitensi (alla Sicurezza nazionale, al Pentagono, al dipartimento di Stato e alle intelligence) che temono che lo Stato islamico, una volta ritirati gli americani, possa tornare a ri-controllare il territorio. Stime catastrofiche prevedono che nel giro di sei mesi i baghdadisti riprendano una dimensione statuale in Siria simile a quella che la Coalizione internazionale a guida americana, insieme alle forze curdo-arabe, ha praticamente disarticolato e fatto crollare (per intenderci: la Brookings Institution stima che al suo apice l’IS controllasse un territorio dove vivevano 10 milioni di persone, che faceva da base economica per l’organizzazione, ma anche da centro logistico per le attività terroristiche con cui ha martoriato diversi paesi del mondo).

Attenzione: se lo Stato islamico è diventato così grosso e così forte è grazie alla dimensione fisico-geografica del Califfato, che rendeva materia un sogno ideologico fanatico attrattivo per migliaia di estremisti in giro per il mondo. Ora questo territorio non c’è più, gli ultimi villaggi stanno cadendo, ma chi lo ha pensato, progettato, e costruito non è del tutto sconfitto: striscia, prende tempo, non molla e senza pressione può ricominciare il ciclo da clandestinità a statulità già visto negli ultimi quindici anni.

Ieri Joseph Votel, il capo del CentCom (il comando territoriale del Pentagono che copre dall’Egitto all’Afghanistan), ha parlato davanti alla Commissione Servizi armati del Senato, e ha confermato le macabre previsioni che potrebbero accompagnare un ritiro troppo rapido americano. “Se i principali attori e i loro delegati vengono coinvolti in una competizione per l’influenza in Siria, questo potrebbe creare spazio per i resti dell’Isis o altri gruppi terroristici per riformarsi o ricostituire”, ha detto il generale.

Queste parole confermano un’analisi mostrata al Senato già la scorsa settimana con il “Worldwide Threat Assessment of the US Intelligence Community”, un documento che elenca le minacce per la sicurezza americana, in cui c’è scritto chiaramente che migliaia di combattenti e sostenitori dello Stato Islamico rimangono nascosti in Siria e in Iraq, e continueranno a condurre attacchi e “sfruttare le rimostranze sunnite” (ossia gli effetti del settarismo, come successe in Iraq dopo il ritiro obamiano del 2011), cercando spazi per crescere, ragion per cui non si può perdere il contatto col campo, da dove si raccogli intelligence diretta. Stessa linea si può trovare in uno studio del Pentagono che uscirà nei prossimi giorni.

Votel, un tempo capo delle forze speciali statunitensi, è un ufficiale abituato a esprimersi col contagocce, ma ieri ha anche ammesso di non essere stato consultato da Trump quando ha annunciato il ritiro (e conoscendo Trump non c’è da stupirsi, sebbene sia pazzesco, ndr). Una circostanza che ha contribuito, secondo il comandante, alle dimissioni dell’ex segretario alla Difesa, James Mattis – che ha lasciato il ruolo di capo del Pentagono i giorni successivi all’annuncio di Trump sul ritiro, seguito a ruota da Brett McGurk, l’inviato speciale per la Coalizione.

Il generale quando parla di “attori” intende le forze straniere che hanno interesse sulla Siria, come Iran, Russia e Turchia: una competizione in questa fase conclusiva della guerra civile potrebbe aprire nuovi problemi, con il regime di Damasco che di fatto non controlla la porzione di territorio orientale del paese, dove un tempo c’era l’IS – si scrive in questo momento “un tempo” perché nel corso di quattro anni di guerra, la Coalizione a guida americana ha martoriato con precisione chirurgica le forze baghdadiste con qualcosa come 300mila raid aerei, al punto che un ordine interno aveva imposto ai miliziani di non farsi trovare allo scoperto in gruppi da più di dieci persone, perché sarebbero stati scovati dai satelliti e centrati dai droni americani.

Votel fa riferimento a un altro compito della presenza americana in Siria, ossia creare un punto di equilibrio davanti a quegli altri attori. In Siria ci sono duemila forze speciali statunitensi, che però hanno un potere dissuasivo esponenziale. Nell’emendamento di McConnell si cita la stessa situazione: il ritiro troppo rapido “potrebbe consentire ai terroristi di raggrupparsi, destabilizzare regioni critiche e creare vuoti che potrebbero essere riempiti dall’Iran o dalla Russia, a scapito degli interessi degli Stati Uniti e quelli dei nostri alleati”. Il senatore, pochi minuti prima del Sotu di Trump, era su Fox News a tenere una specie di mini-contro-discorso in cui ha detto che “non è vero che gli Stati Uniti sono coinvolti in guerre senza fine”.

Sulla dimensione assunta dall’IS – “si è trasformato in una rete nascosta” (circostanza già provata un dozzina di anni fa, quando il gruppo si faceva chiamare Al Qaeda in Iraq) – è stato redatto un report analitico anche su impulso del segretario generale dell’Onu. Reuters, che ha potuto vedere i contenuti delle 18 pagine, spiega: ci sono ancora più di una dozzina di combattenti tra Siria e Iraq, nascosti; l’IS è “il gruppo terroristico internazionale di gran lunga più ambizioso, e quello che più probabilmente condurrà un attacco complesso e su vasta scala nel prossimo futuro”; gli obiettivi futuri potrebbero essere le aviazioni civili, da colpire anche con agenti chimici; “i combattenti terroristi stranieri che escono dalla zona di conflitto, o quelli che ritornano prima di nuovo attivi dopo il rilascio dalla prigione, aumenteranno la minaccia”; “le donne radicalizzate e i minori traumatizzati possono anche rappresentare un’altra seria minaccia”.

Oggi, a Washington, il segretario di Stato, Mike Pompeo, ospita un incontro di alto livello in cui ministri degli Esteri e diplomatici delegati dai 79 paesi della Coalizione internazionale anti-IS discuteranno della situazione (con il ritiro americano come ammasso nebuloso e non troppo recondito sulle discussioni). L’obiettivo politico americano è aumentare il coinvolgimento degli altri paesi per suddividere il peso delle fasi finali della lotta all’IS, e quello successivo per il contenimento. Tutto nell’ottica di un riequilibrio di impegni di cui il presidente Trump è l’attuale frontman, ma che è un sentimento statunitense che cova da tempo.

(Foto: Department of Defense, Foto Pubbliche)

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