Lo Yemen è infestato di mine antiuomo piazzate dai ribelli Houthi. Sono queste uno dei punti di forza del gruppo sciita che alla fine del 2014 ha rovesciato il governo di Sanaa e che anche grazie ai campi minati sta bloccando l’avanzata della coalizione guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi, lanciata dall’inizio del 2015 per riconquistare il paese, ancora senza risultati.
La presenza di questi sistemi — ufficialmente vietati dalle convenzioni di guerra internazionali — è un argomento che Riad intende anche usare come bilanciamento alle tante accuse ricevute sui danni collaterali e le vittime civili prodotti dall’intervento a sostegno del deposto governo yemenita. E infatti, i governi saudita ed emiratino hanno invitato per un tour in Yemen diversi giornalisti internazionali (tra loro David Kirkpatrick del New York Times che ha scritto un lungo e approfondito reportage).
Di più: Kirkpatrick scrive che secondo i sauditi quelle mine sono assemblate in Yemen, da catene di produzione organizzate dagli Houthi, ma che la componentistica e il know how arrivano dall’Iran. Non è una novità: Riad (e non solo) considera i ribelli come un proxy iraniano con cui seminare destabilizzazioni nella regione. I legami tra gli Houthi e Teheran non sono diretti e palesi come quelli che la Repubblica islamica ha con altri gruppi combattenti (Hezbollah in Libano, per esempio), ma collegamenti, soprattutto sul fronte dell’invio di armamenti, ci sono.
A settembre 2018, per esempio, il gruppo di ricerca indipendente inglese Conflict Armament Research ha concluso che parte delle componenti delle mine antiuomo rinvenute in Yemen sono di fabbricazione iraniana. (Nota: per dovere di completezza occorre ricordare che lo studio era stato finanziato sia dall’Unione europea che dal governo emiratino, che è parte in causa in Yemen e guida il confronto regionale contro l’Iran.)
L’articolo pubblicato dal NYTimes è rilevante, tanto che il portavoce del Consiglio di Sicurezza nazionale statunitense, Garret Marquis, lo ha condiviso su Twitter con un commento: “Il Nyt parla delle conseguenze dell’intervento iraniano in Yemen: gli Houthi mettono in pericolo i civili con più di un milione di mine terrestri pagate da Teheran”. È una dichiarazione piena di politica.
L’amministrazione Trump ha ristretto i rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita che erano stati annacquati dal governo di Barack Obama, che aveva lavorato molto per raggiungere l’accordo sul programma nucleare iraniano – scontentando i sauditi che nell’Iran vedono un nemico esistenziale (visione ricambiata a Teheran). E la Casa Bianca trumpiana ha, simmetricamente al miglioramento delle relazioni con Riad, aumentato il livello di confronto con l’Iran: Donald Trump ha tirato fuori gli Stati Uniti da quell’accordo sul nucleare e sta seguendo una politica dura nei confronti di Teheran, contro cui le posizioni di sauditi, emirati, e israeliani (i migliori alleati americani in Medio Oriente) trovano un allineamento reciproco.
In questo sostegno a Riad e scontro con Teheran, Washington ha il problema della crisi yemenita, per cui addossa le colpe all’Iran – che avrebbe spinto gli Houthi a un’azione aggressiva e violenta per proprio interesse (destabilizzare l’alleato saudita, usufruire del caos per prendere il controllo parziale del paese, seguendo il modello Siria) – mentre dà un limitato supporto ai sauditi. Ma l’intervento di Riad in Yemen, a causa delle tante vittime civili, è un elemento critico, di imbarazzo, per i governi occidentali alleati, non solo per gli americani.
I congressisti statunitensi anche per questo hanno preso posizioni contro il sostegno americano all’Arabia Saudita sullo Yemen, e stanno sfruttando la situazione (e il contraccolpo del caso Khashoggi) per cercare di ricostruire i lineamenti storici delle relazioni con Riad, che con Trump sono diventante un argomento esclusivo della Casa Bianca (curate dal genero-in-chief Jared Kushner) e su cui invece Senato e Camera vogliono tornare ad avere un ruolo.
Allo stesso tempo, la linea contro l’Iran ha prodotto per gli Stati Uniti una frattura nelle relazioni transatlantiche. L’uscita dal Deal con Teheran è stata una decisione unilaterale trumpiana che ha scontentato gli alleati europei, co-firmatari nel 2015 dell’accordo. Ora l’Ue sta cercando di salvare l’intesa (e i benefici economici, commerciali e politici collegati), mentre Washington sta lavorando per convincere i singoli stati membri dell’Unione a prendere posizioni contro gli ayatollah e riavviare la politica di isolamento.
La vicenda delle mine in Yemen può dunque essere usata all’interno di questi intricati e concatenati dossier mediorientali, perché è utile per dimostrare che l’Arabia Saudita sta fronteggiando un nemico tenace e senza scrupoli, responsabile di vittime civili – l’articolo del Nyt dice anche che Riad ha già stanziato 40 milioni di dollari da distribuire in programmi di addestramento per sminatori e per insegnare alla popolazione locale come gestire certe situazioni.
Allo stesso tempo, mentre giustifica il sostegno ai sauditi, la questione collega ancora gli Houthi all’Iran e alle politiche maligne che la Repubblica islamica diffonde per interesse nella regione. Implicito il richiamo agli europei: come fate a dar sostegno a Teheran che ha aiutato i ribelli yemeniti a disseminare di mine il territorio e ha prodotto morti e mutilati innocenti? Uno dei punti su cui Trump ha sempre battuto per spiegare le ragioni dell’uscita dal Nuke Deal è esattamente questo: non basta rispettare le clausole dell’accordo, se poi finanzi gruppi combattenti e terroristici, o porti avanti politiche velenose e ambizioni missilistiche.