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Che fine farà Radio Radicale e il pluralismo informativo? Parla Marco Perduca

Sono molte le voci che in questi giorni si stanno levando a sostegno di Radio Radicale. La sua sorte è, infatti, appesa a un filo a causa dei tagli operati dal governo. Ma cosa sta realmente succedendo all’ascoltatissima emittente, ligia al motto di enaudiana memoria, “Conoscere per deliberare”? Lo abbiamo chiesto a Marco Perduca, già senatore radicale durante la XVI legislatura.

“Radio Radicale, da vent’anni in convenzione con il Mise, trasmette i lavori del Parlamento, garantendo una copertura territoriale del 70% ed utilizzando oltre il 65% del proprio palinsesto per offrire un servizio pubblico”, ha esordito Perduca. “Il governo ha sempre assicurato 10 milioni di euro: all’inizio erano per tre anni, poi per due e infine uno. Il che non è il massimo della sicurezza nella gestione di un’azienda che non è pubblica ma privata. La spesa più grossa è sempre stata quella destinata a mantenere attive le antenne, la struttura e una rete che garantisce la distribuzione su base nazionale. Questo, fino alla finanziaria del 2018”.

E poi?

Poi si è capito che non ci sarebbe stata l’intenzione di rinnovare la convenzione. Solo i primi 5 milioni sono stati finanziati. L’on. Renato Brunetta ha chiesto un’estensione di sei mesi, la questione è stata riaffrontata a giugno, si è ipotizzata una manovrina o un provvedimento ad hoc che avrebbe consentito l’arrivo dei restanti 5 milioni. Grazie a ciò si è permesso a Radio Radicale di continuare ad operare fino al 2019.

Ma oggi la prosecuzione del servizio è a rischio, come mai?

Sono stati semplicemente interrotti i finanziamenti. E questo invece di preferire soluzioni strutturali come l’effettuazione di una gara d’appalto in cui i soggetti, privati o pubblici che fossero, si sarebbero dovuti impegnare a “sacrificare” oltre il 65% del proprio tempo al servizio pubblico.

Questo “sacrificio” fino ad oggi lo ha fatto solo Radio Radicale. Non va in qualche modo a precludere una reale concorrenza con le altre radio, già sul mercato e indotte, per via dei profitti, a mandare in onda solo programmazioni più “popolari”?

Certo, anche perché il rimanente palinsesto di Radio Radicale è dedicato, per una scelta editoriale invariata dalla seconda metà degli anni ‘70, a trasmettere i lavori del governo, del CSM, della Consulta piuttosto che della Cassazione, oltre che l’attività divulgativa delle riunioni dei partiti o delle udienze dei processi più importanti. Anche questo è servizio pubblico. Ma se la Radio dovesse mettersi in gioco sul mercato, dovendo comunque dare priorità alle sedute del Parlamento o delle Commissioni, ci si giocherebbe tutti gli orari di maggior ascolto. Per non parlare di quando ci sono le sedute fiume.

L’esperimento fallito di GR Parlamento non lo aveva già dimostrato?

Esattamente. Il famoso GR Parlamento della Rai altro non era che un doppione di Radio Radicale, che costava quattro volte tanto e che, invece di trasmettere in diretta le sedute, mandava degli stralci del dibattito, senza par condicio. Non veniva nemmeno coperto il 70% del territorio nazionale, quanto meno nell’era pre-digitale terrestre.

Se non fosse abbastanza, allora, perché un ascoltatore dovrebbe sperare che Radio Radicale non finisca la propria attività?

Perché, oltre alla radio, si sta curando anche un importante archivio, digitalizzato e aperto a tutti. Un pezzo di storia italiana che contiene i file dei processi, delle conferenze stampa, del Parlamento europeo, delle presentazioni di libri, insomma l’attività di una serie di istituzioni recuperabili solo in questo database.

Però, se le cose non cambiano, si arriverà inevitabilmente alla scadenza del 20 maggio, giorno in cui terminerà l’erogazione dei contributi pubblici. Cosa accadrà successivamente?

Bisognerebbe chiederlo all’editore di Radio Radicale, che è la Lista Pannella, al direttore, Alessio Falconio, e all’amministratore delegato, Paolo Chiarelli. Ad oggi, secondo quanto è venuto fuori dal dibattito dell’VIII Congresso del Partito Radicale, ci sono una serie di sostegni pubblici che vengono da tutti i partiti, tranne che dall’area Lega-cinquestelle. C’è un imbarazzo che serpeggia fra deputati e senatori gialloverdi, perché riconoscono la qualità del servizio di Radio Radicale. Ma siccome è il governo che ha il coltello dalla parte del manico, se il governo non considera la questione, la terza settimana di maggio Radio Radicale finirà i soldi e non potrà più continuare.

Effettivamente ci sono stati molti autorevoli appelli bipartisan a favore di Radio Radicale, ma c’è qualcuno che è passato dalle parole ai fatti? Cosa si può fare per salvare la Radio?

L’unico modo è far cambiare idea al ministro competente, che si chiama Luigi Di Maio. Quanto al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che in una conferenza stampa aveva affrontato il problema dicendo che Radio Radicale si deve mettere sul mercato, bisognerebbe rispondergli che se uno dovesse fare questo ragionamento sulla Rai, dovrebbe abolire il canone. Così anche la Rai sarebbe veramente sul mercato, raccogliendo la pubblicità.

Viste le sfide che il Partito Radicale sta affrontando per riorganizzarsi dopo la scomparsa di Marco Pannella, verrebbe da pensare che c’è un qualche parallelismo fra i problemi della Radio e la vita turbolenta del partito. C’è?

Posso dire senza timore di smentita che ogniqualvolta si avvicinava la scadenza del contratto di servizio, cosa che ho seguito per cinque anni quando facevo parte della Commissione Bilancio, Pannella pubblicamente denunciava le intenzioni del governo di turno di voler mettere a tacere l’unica voce che dava voce agli amici e ai nemici di ogni governo. Oggi avendo al governo due partiti guidati da due persone che utilizzano l’intimidazione per tenere buoni i propri, non ci si meraviglia di nulla.

Vito Crimi, sottosegretario con delega all’editoria, qualche tempo fa, sul blog del M5S, aveva detto: “L’informazione in Italia è malata, è frutto del perverso intreccio tra politica, editoria e comitati d’affari. La politica ha regalato soldi a giornali che nessuno vorrebbe più comprare”. 4 miliardi di euro elargiti in 15 anni, dice Crimi, non hanno fermato l’emorragia di lettori. E fra questi, il vero scandalo è Radio Radicale che ottiene 14 milioni (di cui 4 come contributo all’editoria, ndr). Cosa gli risponderebbe?

Invidio quelli che hanno sempre la spiegazione pronta a fenomeni complessi. Lui sa per certo che per questa sovrapposizione di interessi, l’emorragia dei lettori si è verificata grazie ai comitati d’affari che si erano assicurati i soldi pubblici. Abbiamo giornali, come quello di Confindustria, che ricevono un paio di milioni l’anno per un contributo carta. Non parliamo di agevolazioni fiscali, attenzione. Parliamo di un giornale, che rappresenta le élite industriali del paese, ma che gode del contributo, ripeto, per la carta.

Lo stesso Vito Crimi, intervistato ad Un giorno da pecora, ha poi affermato: “Mi dispiacerebbe assolutamente se chiudesse, ma non possono essere i soldi pubblici a tenere in piedi una radio di partito. Non voglio togliere i soldi a Radio Radicale, ma la convenzione va rivista”. Non è una contraddizione?

Radio Radicale rivendica la sua appartenenza alla galassia radicale. Ma non è esattamente del partito, appartiene ad una società collegata alla lista Marco Pannella. Quando esisteva il finanziamento pubblico dei partiti, questo veniva girato in buona parte alla Radio. Eppure la scelta politica della lista Marco Pannella non era di avere un giornale cartaceo di partito, ma di dare la parola a tutti.

È più democratico, allora, il servizio svolto da Radio Radicale o quello della piattaforma Rousseau?

Rousseau non si pone neanche il problema di fare informazione. Acchiappano indirizzi, non si sa come vengono elaborati i dati e alla fine viene fuori un risultato. A volte corrisponde al volere dei capi, altre volte ci sono delle sorprese. Si tratta di dirigere un comportamento politico elettorale, non si tratta di diffondere notizie. Ma se è vero che tutti i parlamentari danno 300 euro al mese alla piattaforma, e il M5S ha più di 300 parlamentari, sono sempre soldi pubblici trasferiti ad una società privata per offrire un servizio che manco funziona.

E la Lega, invece, ha mai difeso Radio Radicale? Radio Padania, che in misura minore compete con Radio Radicale, ha ricevuto lo stesso trattamento?

Radio Padania credo che prenda una parte dei soldi dell’editoria politica ma è afflitta da una vicenda di debiti e problemi economici complicati, assieme ai 49 milioni della Lega che sono scomparsi. È una radio che si sente in Padania, non in tutta Italia. Potrebbe concorrere con Radio Radicale ad una eventuale gara d’appalto, se si facesse. Ma si tenga presente che quando la Lega entrò per la prima volta in Parlamento, solo Radio Radicale intervistava Bossi e lasciava aperte le linee, facendo urlare i leghisti dell’epoca. Oggi i leghisti sono consci della qualità del servizio, ma non si esprimono pubblicamente per difenderlo.

Perché l’informazione in Francia riceve aiuti dallo stato, frutto di conquiste derivanti niente meno che dalla rivoluzione francese, e in Italia vengono percepiti come l’ennesimo privilegio di una casta?

Un conto è quel sistema, che può essere criticato o criticabile, un conto è quello di chi vive esclusivamente del contributo pubblico, facendo di tutto affinché rimanga a vita, perdendo la propria indipendenza. In Italia ci si inchina a chi attribuisce i soldi. La differenza fra il giornalismo francese e quello italiano è che quello italiano predilige le opinioni e i retroscena, attaccati al pettegolezzo. Il giornalismo francese, in buona parte, è fatto da professionisti seri che non si affiderebbero alle voci di corridoio. Queste non hanno diritto di cittadinanza nella stampa straniera.

Prima di chiudere, è opportuno che lei lasci una testimonianza su un episodio rimasto agli annali nella storia di Radio Radicale.

Beh, Radio Radicale si trovò in questa stessa situazione anche 25 anni fa. Allora si disse: voi non volete che si ascoltino le voci dei politici di tutti i colori? Allora noi nelle prossime settimane accendiamo i microfoni in modo che la gente per 40 secondi possa chiamare e dire quello che pensa. Così nasce “Radio Parolaccia”: sentiamo la voce del popolo a cui vogliamo negare la conoscenza della voce dei politici. Le invettive iniziarono ad arrivare non dal primo giorno, ma dopo tre o quattro giorni. Fu allora che fu inventato il vaffa… molto prima di Beppe Grillo.

Una sorta di eterogenesi dei fini: il populista che uccide la radio del popolo.

Sì. Perché il populista, come il Masaniello ci insegna, fa gli affari propri e non quelli del popolo. Ma fra i due populisti, le sorti elettorali sembrano giocare a favore solo di uno. L’altro, invece, dovrebbe iniziare a porsi qualche domanda.


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