Dalla Cina alla Libia, passando per lo scontro Di Maio-Salvini circa il riassetto, ricalcando il modello americano, dei nostri comparti di sicurezza e di intelligence. Franco Frattini, ex ministro degli Esteri e attualmente presidente del Sioi, ne parla con la moderazione di chi ha passato una vita negli ambienti diplomatici.
Oggi Xi Jinping al Quirinale ha detto che con l’Italia vuole incrementare lo scambio di informazioni. Questo non rischia di allarmare ulteriormente i nostri alleati americani?
È sempre stato così, la Cina ha sempre attribuito ai Paesi occidentali e in particolare all’Italia un rilevante ruolo nel cosiddetto knowledge sharing. Ovviamente lo scambio di informazioni è un tema che il governo farebbe bene a delimitare proprio per non creare ulteriori frizioni con gli Usa. Escludo comunque possa mai avvenire uno scambio di informazioni a livello di intelligence con Pechino o per quanto riguarda i dossier riguardanti la Difesa e gli armamenti, ma su questo punto bene ha fatto il presidente del consiglio, rinforzando la golden power, a darsi la possibilità di intervenire qualora fossero messi a rischio settori strategici del nostro Paese.
Andrebbe forse chiarito anche dal punto di vista comunicativo, gli americani potrebbero fraintendere.
Certo, è un passaggio che sarà necessario. Il rischio è che gli Usa possano travisare la tipologia di informazioni a cui Xi Jinping si riferiva, i membri del governo devono chiarire di che informazioni si tratta. Tutto bene finché si parla di informazioni commerciali, ma su materie riservate come infrastrutture critiche, cablaggio di cavi, 5G non si può scherzare.
A proposito di intelligence, ha letto le dichiarazioni di Di Maio e Salvini? Il primo vorrebbe adeguare i nostri comparti di sicurezza sulla forma dei modelli americani, il secondo rifiuta ogni confronto dicendo che abbiamo la migliore intelligence del mondo. Da che parte sta?
Senza dubbio con Salvini, la nostra intelligence è tra le migliori del mondo e lo posso dire essendo stato per 5 anni presidente del Copaco (l’ex Copasir). Del resto basta vedere i risultati ottenuti in questi anni in tema di antiterrorismo. Parlare di riordino mi sembra fuori luogo.
Questo accordo tra Roma e Pechino porterà più vantaggi o pericoli, non rischiamo di fornire ulteriore know-how alla Cina?
Dipende se l’Italia sarà capace di avere un ruolo proattivo, l’incognita è tutta lì. Già oggi abbiamo diverse forme di collaborazione con loro, ad esempio i cinesi sono la terza popolazione di stranieri a studiare in Italia e già diamo loro strumenti di conoscenza con le università o i master. Dal canto suo Pechino, con l’ultima legge approvata dall’Assemblea del Popolo, ha equiparato le imprese cinesi a quelle straniere purché queste scambino informazioni e tecnologie, chiaramente sono molto interessate alla ricerca italiana in vari settori. Nella stessa legge però finalmente inaspriscono le sanzioni sui brevetti facendo un primo passo in una reale economia di mercato.
L’interesse verso i nostri porti va vista come una mossa economica o geopolitica?
Prevale il secondo aspetto. Ma devo dire, con una battuta, che l’Italia di Marco Polo non può restare fuori dalla nuova Via della Seta. E dobbiamo farlo senza pensare troppo alle proteste di alcuni Paesi europei. L’Italia, a partire dal governo Gentiloni, è già oggi membro dell’Asia Investment Bank, detenendo un 2,5 per cento di questa istituzione. Se usato bene questo accordo può rilanciare anche il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo. Il Pireo comprato dai cinesi non si è rivelato così fruttuoso per loro perché al nord della Grecia non ci sono grandi infrastrutture, mentre da Trieste o da Genova gli scambi possono essere di ben altro livello.
Stiamo spostando il nostro asse verso Est?
Spero di no, dovremo essere bravi a spiegare, anche agli amici Usa, che se l’Italia gioca un ruolo con la Cina può essere un vantaggio anche per loro. È già avvenuto con l’Iran, Paese con cui continuiamo le nostre relazioni commerciali, ma siamo stati esentati dalle contro-sanzioni americane a differenza di altri Paesi. Per questo dico che l’Italia deve saper giocare un ruolo attivo, senza subire questo accordo, anche perché poi i cinesi vanno veloci come treni. Quando ero ministro degli Esteri dicemmo si al progetto russo sul South Stream, gli Usa ci guardarono con diffidenza. Mi chiamarono, li invitai a Roma e dissi loro che non avevamo segreti con i nostri amici facendo una full disclosure del progetto. Sia Hillary Clinton che Barack Obama restarono soddisfatti.
Oggi, nel corso del loro incontro, Conte e Macron avranno parlato anche di Libia oltre che di Tav? In fondo non possiamo aspettarci che possa aiutarci la Cina sul dossier libico…
Spero ne abbiano parlato e magari per trovare soluzioni comuni. La Cina in Libia non ha oggi un interesse diretto, ma quando cadde Gheddafi seguimmo l’evacuazione dal Paese e decine di migliaia di lavoratori cinesi erano in lì. Scoprimmo che erano quanto i turchi. Questo dimostra che se la Libia tornasse ad avere una stabilità anche la Cina potrà avere degli interessi. In altri Paesi africani, ad esempio, l’Italia già potrebbe sfruttare questo rapporto con loro per mitigare la loro tendenza coloniale.
L’Italia dovrà essere capace di coinvolgere tanto Usa, Russia e anche l’Egitto. Abbiamo forse ecceduto in questi anni a schiacciare la nostra posizione solo sul governo di Tripoli e su Serraj. Oggi serve includere in un percorso anche il Generale Haftar e spero che la prossima conferenza organizzata dall’Onu a metà aprile riesca a fare chiarezza. Spero che questo avverrà prima che Haftar sarà arrivato a Tripoli e magari accompagnato da un generale francese… Già nei mesi scorsi il Feldmaresciallo ha conquistato il Sud libico grazie ai caccia francesi.
Su questo attivismo francese ha influito l’incontro tra Di Maio e Di Battista con il leader dei gilet gialli?
Loro certe cose se le legano al dito, non mi stupirebbe. Anche se è da tempo che la Francia intende scalzarci la leadership in Libia.