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Perché l’Egitto ha arruolato Hamas nella sua lotta al terrorismo

egitto

La questione del Sinai e del suo jihad è sempre più importante, data anche la nuova strategia di Hezb’ollah in Libano meridionale, oltre alla attuale dislocazione delle forze iraniane, siriane, russe e di varia provenienza sunnita e jihadista tra il Golan e la Bekaa, ai limiti del confine tra Siria e Israele. La storia del jihad “della spada” nella penisola del Sinai comunque è, ormai, poliennale. Nel 2011, proprio nel momento della massima tensione, sia occidentale, ma anche interna ad alcune forze islamiche cosiddette “moderate” operanti nel Maghreb, di dare vita alle varie “primavere” nazionali, si forma, sempre, appunto, nella penisola del Roveto Ardente, il gruppo Ansar Bayt Al-Maqdis. Come era facile prevedere, la destabilizzazione dei vecchi regimi aveva rafforzato, non indebolito, le organizzazioni jihadiste, diversamente da quello che pensavano, in quel momento, a Langley. Questa Abm è la nuova rete di scambio, addestramento, informazioni e raccolta fondi del jihad locale che, per la prima volta, si configura in un suo ruolo autonomo. L’occasione della caduta di Mubarak è poi troppo fortunata per lasciarla cadere, da parte di tutte le organizzazioni della “guerra santa” egiziano-palestinese. Abm, l’Ansar neo-costituitosi, riesce poi facilmente, nel vuoto di potere (e di welfare per le popolazioni sinaitiche) a conquistare la simpatia delle popolazioni locali. C’è poi da dire che il Cairo, sia pure da sempre attento, salvo che nella vacanza strategica prodottasi con il governo della Fratellanza Musulmana, quello di Mohammed Morsi, che dura dal 30 giugno 2012 al 3 luglio 2013, quando il golpe del capo dei Servizi militari, Al Sisi, lo allontana da potere, pensa solo alla sicurezza delle reti petrolifere del Sinai, non al sostegno delle popolazioni locali. Anche l’Egitto di oggi paga, con l’emersione del jihad del Sinai, la sua distrazione strategica e la carente analisi sociale e politica del sistema peninsulare intorno ai sui canali. Ma i soldi sono pochissimi, per il Cairo di Al Sisi, quindi una certa semplicità analitica è del tutto comprensibile.

La sola securizzazione delle reti del Sinai accade già fin da Mubarak fino all’attuale Al Sisi, che però sa benissimo che, dopo la “cura” della Fratellanza, non può del tutto fidarsi del tutto né delle sue polizie né dei suoi Servizi, e quindi pensa ad una sorta di “affitto della sicurezza”, anche a terzi, per la penisola sinaitica. A questo punto, arriva però la notizia che le forze israeliane stanno utilizzando proprio elementi palestinesi, per raccogliere informazioni primarie sull’Isis del Sinai, uno degli attuali sviluppi dell’Abm. Abm è uno dei primi gruppi fuori dal sistema sirio-iraqeno a giurare fedeltà al “califfo” Al Baghdadi. Gerusalemme utilizza queste reti informative solo per sostenere Il Cairo nella sua specifica war on terror locale, visto che il Daesh-Isis ha ancora almeno 2000 elementi attivi nella Penisola. Che, per ora, non si direzionano specificamente contro lo stato ebraico. L’11 gennaio 2019, per esempio, le FF.AA. egiziane hanno colpito con successo e quindi eliminato 11 terroristi, che erano già in fase di operazioni contro la città di Bir-el-Abad, nel nord del Sinai. Si dice, persino, che l’intelligence di Gerusalemme abbia infiltrato lo stesso Daesh-Isis locale, cosa peraltro confermata dallo stesso Presidente egiziano Al-Sisi che, in una intervista al canale TV americano Cbs, resa il 3 gennaio 2019, ha confermato esserci una stretta cooperazione tra i Servizi di Israele e le Forze egiziane, in tutte le operazioni anti-jihadiste in Sinai. L’obiettivo di Abm, intanto confluito rapidamente nel “califfato” di Al Baghdadi, è quello del deterioramento stabile delle relazioni tra Egitto e Israele, con ogni evidenza. Si noti poi che la continua azione terroristica contro le reti del gas e del petrolio, in Sinai, ha costretto la Giordania a cercare e comprare idrocarburi altrove. Ovvio, quindi, che la stabile insicurezza delle reti nel Sinai rallenti e, spesso, blocchi le prospettive di espansione del gas e del petrolio israeliani nel loro nesso, sia con l’Egitto, che con la lunga rete della Arab Pipeline che arriva fino a Damasco e, poi, verso la Turchia e da lì al mercato europeo.

Quindi, l’Abm, che è ormai parte del sistema pseudo-califfale, si concentra, dal 2013 del fortunato golpe di Al Sisi a oggi, in un solo obiettivo: la lotta contro le FF.AA. e il potere egiziano. Ecco quindi la nuova rete jihadista del Sinai: il Wilayat al Sinai, ovvero la rete dello pseudo-califfo, alcuni gruppi legati ad Al Qaeda, quali Jund al Islam, una struttura che opera soprattutto nel deserto occidentale sinaitico, poi Ansar al Islam e altri, sempre attivi nel Nord della penisola del Roveto. Vi sono anche gruppi militanti che sono legati esplicitamente alla Fratellanza Islamica, come lo Hassm (sigla dell’Esercito del Movimento Egiziano) e il Liwa al Thawra, ovvero “la bandiera della Rivoluzione” che, però, opera soprattutto in Egitto, tra Alessandria, il Cairo e Suez. Si noti, poi, che sia lo stato-“califfato” islamico del Daesh-Isis che la stessa Al Qaeda, proprio per bocca di Ayman Al Zawahiri, hanno postato in rete, lo scorso febbraio, un video che critica duramente il comportamento della Fratellanza Musulmana in Egitto e, soprattutto, in Sinai. Al Sisi, nel 2014, militarizza quindi il Sinai. Una guerra a bassa intensità che, ormai, conta, senza che le cose siano molto note, diverse migliaia di morti. L’Abm, ri-denominatasi Wilayat al Sinai dopo la sua affiliazione al Daesh-Isis, raccoglie ancora molta della popolazione sinaitica, mentre la crisi economica dell’area si aggrava con l’embargo imposto dal Cairo, finalizzato a bloccare il contrabbando di petroli e il vastissimo traffico di armi. A questo punto, Al Sisi lancia la sua grande Comprehensive Operation Sinai 2018, azione militare, che ha inizio il 9 febbraio 2018, organizzata tra il delta del Nilo e il nord e il centro deli Sinai. Il tutto ha inizio, in effetti, dopo l’attentato alla moschea di Al-Rawda del 24 di novembre 2017, e si noti che Al-Rawda una moschea legata alla setta sufi Jayiria, un “ordine” mistico molto diffuso proprio nel Sinai, soprattutto nell’area di Bir el-Abed.

Sulla base dei risultati, efficaci, di questa grande operazione, l’Egitto ha anche chiuso il confine di Gaza e quello di Rafah, che è comunque stato riaperto da non molto. La “grande operazione” viene lanciata poco prima, è bene notarlo, delle elezioni politiche e presidenziali egiziane del marzo 2018. Quindi, ecco i dati dell’equazione: forte minaccia jihadista anti-egiziana nel Sinai, forze limitate a disposizione dell’Esercito e dell’intelligence egiziana ma, poi, c’è soprattutto la questione del prestito del Fondo Monetario Internazionale all’Egitto, che non può non avere un rilievo strategico e militare, anche nel Sinai. La credibilità militare di Al Sisi è, quindi, uno degli elementi essenziali della sua salvezza finanziaria. Nel novembre 2016, infatti, il Fmi ha accordato una Extended Fund Facility per il Cairo per 12 miliardi di usd. Tutte le rewiews applicative, fino a quella ultima del 4 febbraio 2019, sono state già approvate dal board del Fondo.

Le riforme del regime di Al Sisi sono state fino ad oggi valutate, comunque, sempre positivamente, sempre dal suddetto board. E anche da molte banche di affari private, che potrebbero anche subentrare al Fmi alla fine della extended fund facility. Stabilizzazione macroeconomica, quindi, ma ripresa della crescita del Pil, in primo luogo. Il turismo, voce primaria dell’economia egiziana, ha ripreso a marciare molto bene, le rimesse degli emigranti pure, il prodotto del settore non-petrolifero e manifatturiero, che il Fmi ha individuato come la chiave della futura crescita egiziana, sta ricostituendosi e comunque è anch’esso in crescita costante. La protezione sociale messa in atto del governo egiziano, essenziale per “tenere la piazza” (e, spesso, anche il terrorismo jihadista periferico) sostiene il cibo per i bambini, gli alimenti primari, è attivo per le medicine, con un recente e significativo aumento della disponibilità di liquidità nelle moltissime smart cards già distribuite ai poveri. I programmi takafol e karama, ideati per sostenere gli standard di vita delle famiglie povere, operano già per oltre 2,2 milioni di nuclei familiari, ovvero per ben 9 milioni di egiziani. Troppi poveri, quindi, allora molti candidati al jihad, con a disposizione una rete ormai efficacissima, tra para-califfati, Al Qaeda e tutto il resto, ma soprattutto la rete dei “giovani” della Fratellanza Musulmana, che si stanno ri-direzionando verso un jihad “a lenta corsa”, ma non meno efferato o efficace, anzi.

Ed ecco, quindi, che il Cairo ha, senza peraltro farne esplicita nota a Gerusalemme, messo in linea proprio Hamas nella sua guerra a bassa intensità nel Sinai. Il gruppo ex-Abm in Sinai ha peraltro già sequestrato, alla fine del novembre 2018, un carico di armi iraniane, soprattutto missili kornet, armi che andavano dall’Iran verso Hamas via la Striscia di Gaza. Ma le relazioni tra il Jihad islamico Palestinese e l’Egitto, da qualche anno, si sono indebolite, grazie al noto sostegno che il gruppo palestinese di Gaza, legato peraltro alla Fratellanza Musulmana, ha dato al jihad del Sinai; e quindi il vero nesso strategico è, oggi, nello scontro strutturale, nella penisola del Roveto Ardente, tra Daesh-Isis e Hamas. Ovviamente, l’obiettivo primario dell’intelligence di Gerusalemme, è sempre quello di ottenere ottima intelligence sul sistema di Al-Baghdadi nella Penisola, ma Hamas non è certo silente. All’inizio di gennaio 2019, infatti, il ministro degli interni della Striscia di Gaza, ovviamente un dirigente di Hamas, ha arrestato ben 54 collaboratori delle forze israeliane, che erano, sempre secondo Hamas, degli operativi di Shabak, l’Agenzia di Sicurezza di Israele. L’Isis in Sinai ha ancora e comunque una strettissima correlazione con Hamas, ed è a tutt’oggi il principale vettore del contrabbando di armi nella Striscia. Ma ora il “califfato”, e questa è la vera nuova notizia, ha rotto duramente con il gruppo della Fratellanza che comanda nella Striscia di Gaza. E ora, di conseguenza, l’Egitto ha arruolato, come dicevamo prima, proprio Hamas, nella sua lotta contro il c.d. “califfato”. Non sono certo qui inutili i portentosi finanziamenti del Qatar, anche, concessi solo al regime di Al Sisi, il che è un dato essenziale, per comprendere sia la nuova equazione strategica sia dell’Emirato di Doha che quella dell’Egitto attuale.

È proprio all’inizio del gennaio 2018, comunque, che il “califfato” ha apertamente dichiarato guerra ad Hamas. E, in seguito, vi sono stati attacchi anche gravi, a marzo 2019, proprio su postazioni civili israeliane, a partire dalla Striscia di Gaza. I servizi di Gerusalemme hanno, poi, verificato che l’ala specificamente militare di Hamas, le “brigate Ezz-el-Din Al Qassam”, si sono già accordate con le Forze armate egiziane per combattere il “califfato”, soprattutto nelle aree al confine della Striscia di Gaza. L’intelligence del Cairo ha poi notificato agli israeliani, agli Usa e ai sauditi, che ben conoscono le transazioni militar-finanziarie del regime egiziano con il Qatar, ma anche ad altri (i russi) che l’accordo tra Hamas e le Forze del Cairo è finalizzato a “recuperare” stabilmente il gruppo palestinese di Gaza, mentre gli egiziani hanno anche organizzato un breve accordo tra Hamas e Israele, lo scorso ottobre 2018, per diminuire la tensione tra le due aree.

In sostanza, proprio nelle more della prossima cessazione delle attività militari in Siria, si sta creando un nuovo ordine tripartito, nel Medio Oriente, tra i sauditi, l’Egitto e gli Emirati; e tutti e tre questi attori vogliono proprio che Israele partecipi alla intera stabilizzazione dell’area. Questo implica la stabile soluzione della questione palestinese, come è ovvio, magari con una nuova leadership unificata, possibilmente anche diversa dalle attuali, e quindi una nuova ripartizione, anche dentro il mondo palestinese, delle aree di influenza. L’Egitto vuole controllare direttamente la Striscia di Gaza, ovvero Hamas e le più piccole reti locali del Fatah e della Jihad palestinese, sempre nella Striscia, ma senza dimenticare i legami militari e finanziari di queste tre organizzazioni con l’Iran. Che deve, nelle mire del nuovo accordo tripartito arabo, togliere rapidamente il disturbo. Il Cairo immagina qui una sorta di unificazione tra i vari gruppi della antica resistenza palestinese, con nuove organizzazioni della rappresentanza politica interna a Gaza. E, forse, anche nei Territori dell’Anp. Ma si verificheranno molti problemi, ovviamente: l’Autorità Nazionale Palestinese, espulsa de facto dall’area di Gaza, non ha alcuna notizia né nozione sullo stato della sicurezza nella striscia da almeno dieci anni.

Ma l’Egitto non vuole, però, mettere nelle sole mani di Hamas l’intera questione della stabilità del Sinai, oltre ai suoi delicati, ma fondamentali, rapporti con Israele. Al Sisi sta soprattutto osservando, con estrema attenzione, il ruolo del n.2 dell’Anp, Mohammed Dahlan, che ha buoni rapporti con Hamas ma che è ancora accusato dai suoi di Fatah di essere stato “colui che ha perso la Striscia di Gaza, nel 2007”. E, in ogni caso, l’Egitto e Israele (Al Sisi e Netanyahu si sentono regolarmente al telefono ogni settimana) sono oggi in ottimi rapporti, mentre è bene ricordare che è stata proprio l’emergenza del jihad del Sinai a consentire al Cairo di militarizzare le zone in cui gli era stato proibito, proprio dal Trattato di Pace con lo stato ebraico. Altro tema centrale è la collaborazione tra Gerusalemme e l’Egitto sulle questioni energetiche. Poco tempo fa, vi è stato un accordo per permettere all’Egitto di importare gas naturale israeliano per liquefarlo. L’Egitto ha una necessità assoluta di avere il sostegno di Gerusalemme, visto che, in questo contesto, la lotta contro la Turchia era ed è senza quartiere. Ma questa nuova collocazione dell’accordo militare tra l’Egitto ed Hamas ha posto in difficoltà anche Israele, che non è stato consultato, prima di questa alleanza, intorno alla Striscia di Gaza.

Il patto tra il gruppo della Fratellanza Musulmana nella Striscia e gli egiziani è divenuto noto, a Israele, solo quando Hamas ha fatto notare agli egiziani che vi erano state delle interruzioni nella “tregua”, che peraltro l’esercito di Gerusalemme non conosceva ancora in tutta la sua valenza strategica. In ogni caso, Israele ha triplicato la cessione di energia elettrica a Gaza, mentre ben 11.000 Tir sono stati inviati, dallo stato ebraico, a sostegno della popolazione della Striscia. Sono stati poi conferiti, sempre alle organizzazioni politiche e umanitarie di Gaza, oltre 15 milioni di usd di aiuti, da parte del solo Qatar. Hamas, in effetti, voleva soprattutto un rimborso, o un sostegno in denaro, da Israele, ma ben maggiore di quanto previsto, almeno per i fondi che lo stesso Mahmoud Abbas, capo dell’Anp, aveva deciso autonomamente di togliere alla amministrazione autonoma della Striscia di Gaza. Ovvio che, come al solito, la risposta sia stata di tipo terroristico, con bombe lanciate verso le truppe dell’Idf e la popolazione ebraica fuori dal confine. Hamas, malgrado i progetti di stabilizzazione di cui abbiamo fatto cenno, vuole quindi sfruttare al massimo il clima delle prossime elezioni in Israele, ad aprile. E il prossimo obiettivo dei gruppi palestinesi sarà, con piena certezza, l’esercitazione congiunta Israele-Usa prevista per il 4 marzo prossimo venturo.

Si tratterà di un esercizio militare molto importante: una batteria dell’Useucom (United States European Command) composta da missili antimissile Thaad (Terminal High Altitude Area Defense) sarà resa operativa, proprio al confine tra la striscia e lo stato ebraico. Il Thaad verrà quindi aggiunto presto ai sistemi di difesa israeliani, insieme all’Iron Dome, che opera soprattutto contro i missili a corto raggio, al sistema Arrow, che intercetta i missili a lungo raggio nella loro fase eso-atmosferica, oltre alla David’s Sling, la “fionda di Davide”, per colpire i missili balistici tattici. Sia il Thaad che lo Arrow sono già inseriti nella rete di early warning di Useucom, tramite una serie di radar posti in una base usa nel deserto del Negev. Una base che, comunque, già monitora ogni tipo di lancio missilistico possibile proveniente dall’Iran. Ovviamente, la rete Thaad è un implicito suggerimento, da parte di Washington, a non cedere alle lusinghe del trattato sunnita sulle nuove aree di influenza, ovvero quello, ancora scritto sulla sabbia del Sinai, tra Egitto, Sauditi e Qatar.



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