Febbraio 1959. È un tranquillo inverno di guerra fredda. A Roma il presidente Gronchi inizia le consultazioni dopo le dimissioni del secondo governo Fanfani. Nel salone Sverdlovsky di Mosca si conclude il 21° congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica: sulle note dell’inno nazionale, Nikita Khrushchev congeda oltre 1500 delegati, i leader comunisti provenienti da 70 Paesi ed i giornalisti occidentali che per la prima volta sono stati ammessi ad assistere a un congresso del PCUS.
Nel suo discorso conclusivo non può mancare un tributo all’ennesimo successo spaziale: il primo pianeta artificiale. L’Unione Sovietica, infatti, solo pochi giorni prima ha spedito oltre l’orbita della Terra il primo vero satellite del sistema solare costruito dall’uomo. I tecnici del cosmodromo di Baikonur lo chiamano E-1 No4, gli occidentali Luna 1, ma i russi semplicemente Мечта (il sogno).
Mentre i sovietici celebrano l’avverarsi del sogno, sulle cime degli Urali, precisamente sul monte Kholat Syakhl – dove la Russia europea si affaccia sulla sterminata Siberia – si sta avverando un incubo.
La temperatura è fra i 25 ed i 30 gradi sotto zero e sul ghiaccio che ricopre le montagne soffia un forte vento gelido, ma questo non crea nessun problema a dieci giovani: otto ragazzi e due ragazze, uno di 38 e tutti gli altri fra i 20 ed i 24 anni. Tutti esperti sciatori, hanno il brevetto di secondo livello e al termine dell’escursione riceveranno quello del terzo e ultimo livello previsto dai regolamenti. Il più anziano, Alexander Zolotaryov, è ancora più avanti: sta studiando per diventare istruttore di sci escursionistico. Gelo e vento? Sono tutti universitari dell’Istituto Politecnico degli Urali in ottima salute e – soprattutto – sono russi.
L’obiettivo della spedizione guidata da Igor Alekseyevich Dyatlov è attraversare gli Urali settentrionali partendo dal villaggio di Vizhai per scalare il Monte Otorten. Il 28 gennaio, il giorno successivo alla partenza da Vizhai, Yuri Yefimovich Yudin decine di rinunciare a causa dei reumatismi di cui soffre. Tutto il gruppo concorda che può facilmente tornare indietro da solo – vista la breve distanza dal villaggio – e Yuri abbandona la spedizione.
Sarà l’unico sopravvissuto.
Il 31 gennaio, il gruppo raggiunge la fine dell’altopiano e comincia a prepararsi per la salita. Parte delle riserve di cibo e l’equipaggiamento necessario per il rientro vengono raccolti e appesi sulla cima di alcuni alberi per tenerli al riparo dagli orsi. Il giorno dopo iniziano a salire lungo il passo con l’obiettivo di superarlo prima di notte, ma il tempo peggiora ancora. Nella tempesta di neve deviano verso occidente e anziché rimanere lungo la sella puntano verso la cima del Kholat Syakhl. Il nome della montagna è semplicemente la traslitterazione di Holatchahl, il nome datogli dal popolo Mансий (Mansiy). Significa “Montagna della morte”.
I Mansiy non sanno nulla di Luna 1, e nemmeno del 21° Congresso, ma abitano ancora quelle montagne. Un popolo di cacciatori-raccoglitori insediatosi fra le gelide terre degli Urali già 500 anni prima delle guerre fra Sparta e Atene. Solo nel 1582, quando il guerriero cosacco Yermak Timofeyevich iniziò la conquista della Siberia sotto la guida di Ivan il Terribile, iniziarono il processo di assimilazione con la civiltà. Processo anche oggi tutt’altro che concluso.
Ma torniamo ai nostri escursionisti. Mentre la tempesta si intensifica, il gruppo decide di non proseguire e di allestire un rifugio per la notte proprio in quel punto anziché perdere quota e tornare indietro di 1500 metri verso la foresta che potrebbe offrire loro una migliore protezione. Quella sera scattano una foto che verrà ritrovata nel rullino di una delle macchine fotografiche del gruppo. Si vedono cinque di loro mentre riordinano le attrezzature e si preparano ad allestire il campo; sembra che – condizioni meteo a parte – tutto sia tranquillo.
Al rientro a Vizhai, Dyatlov deve mandare un telegramma per confermare che la spedizione si è conclusa senza problemi. Gli accordi sono che il telegramma deve partire non più tardi del 12 febbraio. Ma, prima che Yudin tornasse indietro, Dyatlov lo aveva avvisato che, a causa del maltempo, la spedizione avrebbe potuto protrarsi oltre il limite fissato.
Il 12 febbraio passa senza che all’università giunga alcun telegramma. Si attende ancora una settimana, poi il 20 febbraio scatta l’operazione di soccorso. Le prime squadre sono formate proprio da studenti e insegnanti volontari, ma presto si mobilita l’esercito: squadre sugli sci, aerei ed elicotteri pattugliano l’intera area in cerca dei dispersi.
Il 26 febbraio, i soccorritori individuano la tenda sulle pendici del Kholat Syakhl.
Lo studente Mikhail Sharavin – il primo soccorritore volontario a individuarla – testimonierà che “la tenda è mezza sfasciata e coperta di neve. Non c’è nessuno, ma tutto l’equipaggiamento del gruppo e i loro scarponi sono stati lasciati lì”. La tenda risulta squarciata in più punti; sono evidenti i segni di numerose coltellate, ma quello che lascia senza parole i soccorritori è che le coltellate sono state inferte dall’interno verso l’esterno. A parte i danni subiti, la tenda risulta eretta in modo scorretto e frettoloso. Una situazione incompatibile con l’esperienza dei protagonisti.
Proprio 60 anni fa, studiando le orme nella neve, le squadre di soccorso notano che dalla tenda partono le impronte di otto o nove escursionisti, ma le orme sono di persone che calzano solo calze o un singolo scarpone, alcune sono addirittura di piedi nudi. Le impronte proseguono nella neve fino al confine della foresta sul lato opposto del passo – 1500 metri verso nordest – ma si interrompono dopo 500 m. Un kilometro dopo, sul limitare della foresta, sotto un grande pino siberiano, le squadre individuano quello che resta di un piccolo fuoco da campo. Qui trovano i primi due corpi congelati: Krivonischenko e Doroshenko, senza scarponi e con addosso solo la biancheria. I rami del pino risultano rotti fino ad un’altezza di 5 m, come se qualcuno dei ragazzi avesse tentato di arrampicarsi fin lì. Non presentano ferite salvo qualche abrasione e bruciatura alle mani.
Tornando verso i resti della tenda e osservando bene il terreno, i soccorritori ritrovano Dyatlov, la Kolmogorova e Slobodin, rispettivamente a 300, 480 e 630 metri dall’albero. I loro corpi, altrettanto svestiti, sono disposti in modo da far sembrare che siano morti per il freddo mentre tentano non di fuggire verso gli alberi ma di fare ritorno alla tenda.
Ci vogliono più di due mesi per individuare gli ultimi quattro ragazzi. Finalmente, il 4 maggio vengono individuati sotto 4 metri di neve in una gola scavata da un torrente 75 metri all’interno della foresta rispetto al pino siberiano. Di questi, tre risultano meglio vestiti del quarto e dei ragazzi ritrovati prima. Ad esempio Lyudmila Dubinina – la seconda ragazza del gruppo – indossava i pantaloni bruciacchiati e sbrindellati di Krivonishenko mentre la sua gamba sinistra era avvolta nella giacca di un altro compagno.
(Prima parte di due)
LE FOTO D’ARCHIVIO
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