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Con la Cina è un’intesa tra Stati, non solo un accordo economico. L’analisi di Amighini (Ispi)

coronavirus, Li Wenliang

Alessia Amighini è un’economista, docente in materie geoeconomiche (Cattolica e DiSEI), nonché co-head del programma Asia dell’Ispi: una delle maggiori esperte italiane su questioni asiatiche e Cina, per questo Formiche.net l’ha contatta per un’intervista/analisi sull’imminente arrivo a Roma del presidente cinese Xi Jinping e sulla conseguente adesione italiana al programma Belt & Road Initiative (Bri).

Il governo italiano sostiene che la firma del MoU con cui aderire alla Bri cinese sia una questione di “politica economica e non di politica estera” (virgolettati del sottosegretario Geraci sul Corsera dell’11/03), ma è possibile scindere le due questioni in questa fase storica dominata dalla Casa Bianca trumpiana?

No, da un lato non è possibile scindere le due di questi tempi. Oggi proprio il presidente Trump mostra che la politica estera si fa anche con i trattati su commercio e investimenti, sebbene la sua modalità bilaterale rischia di scardinare il sistema multilaterale degli scambi, che ha portato benefici condivisi un po’ a tutti e ha prevenuto rischiose guerre commerciali. Ma il problema legato a quella dichiarazione è ancor più grande. Innanzitutto non è vero che il MoU (acronimo di memorandum of understanding, un protocollo d’intesa che sarà il documento ufficiale con cui l’Italia aderirà alla Bri. Ndr) che l’Italia sta per firmare sia un accordo commerciale o economico, è invece, guardando nero su bianco, un’intesa tra i due Stati, che include anche gli aspetti commerciali, ma molto altro, e in quanto tale è competenza della Farnesina (sebbene non sia un accordo, un trattato o un contratto). Inoltre, la competenza per la politica commerciale spetta all’Unione Europea, quindi non ne hanno né il Mise né il Maeci.

Da molti settori impegnati sul campo degli scambi economico-commerciali Italia-Cina sono state evidenziate le contraddizioni con cui Pechino porta avanti queste relazioni (penso a quanto dichiarato l’altro ieri da Coldiretti ad esempio, ma non solo ovviamente): sarà l’adesione italiana alla Bri in grado di cambiare queste pratiche cinesi? L’Italia avrà più potere anche in termini dello sbilancio commerciale sofferto (di cui mi pare si parli non tanto, privilegiando i numeri legati all’export italiano)?

Non penso che le pratiche cinesi cambieranno. Daranno qualche piccolo contentino, ma continueranno a perseguire soprattutto i loro interessi, non avremo regali. Aggiungo per esempio la notizia che la China Construction Communication Company avrà in appalto l’ampliamento del porto di Trieste. Per quanto riguarda il nostro disavanzo commerciale con la Cina, non si capisce quale potere avrebbe l’Italia di aumentare le esportazioni in Cina o di ridurre le importazioni dalla Cina. Se ci fossero obiettivi concreti e misurabili di miglioramento della posizione commerciale italiana, sarebbe almeno evidente se li si raggiunge o no, ma senza obiettivi è un salto nel buio.

Secondo il governo italiano, l’adesione potrebbe spingere Pechino a muoversi su standard diciamo così “più occidentali”: è possibile che la Cina decida di mettere mano a riforme più profonde? Perché dovrebbe farlo tramite l’Italia, o meglio: l’Italia ha la forza per innescare questo processo?

Di questi aspetti che rappresenterebbero un innalzamento del livello rispetto agli altri già firmati dalla Cina, nel MoU non vi è traccia. Almeno nella bozza circolata non ufficialmente. I detrattori dell’intesa, in Italia e in Europa, sottolineano che il pericolo è piuttosto che l’Italia si esponga alla possibilità di dover accettare standard e pratiche cinesi, invece di poter condividere le proprie.

Facciamo un’analisi sul rapporto costi/benefici di questa firma per l’Italia?

Questa firma potrebbe portare benefici concreti, se l’Italia mettesse in grande risalto gli asset (per parlare il linguaggio delle imprese, destinatarie dichiarate del MoU) che interessano ai cinesi, dalle infrastrutture ai trasporti (con le doverose limitazioni al controllo cinese di strutture e delle reti), a fronte di vantaggi concreti in termini di sblocco di dossier per far aumentare l’export italiano in Cina o accordi chiari di maggior accesso al mercato cinese. Obiettivi generici di aumento dell’interscambio, tipici del format cinese nei bilaterali, sono invece da evitare nel modo più assoluto, perché danno il via libera implicito a squilibri commerciali ancor più grandi, come sta accadendo in Africa.

Inoltre, tra gli obiettivi vi è quello di attrarre maggiori investimenti cinesi sebbene non greenfield, cioè ex novo (non acquisizioni di imprese italiane) secondo quanto è stato dichiarato. Però non si capisce che convenienza abbiano i cinesi a cambiare un modello rodato (cioè l’acquisizione di imprese italiane con obiettivi di apprendimento tecnologico, oppure di accesso a marchi storici e dall’elevato valore immateriale), se non appunto per investire in attività di nuova costituzione in settori di loro grande interesse, come le infrastrutture e le reti; non di certo in attività in grado di creare occupazione. In questo caso la convenienza italiana, rispetto ai costi in termini di influenza subita, sarebbe limitata al finanziamento, di cui certamente vi è grande necessità, dal momento che in questo momento nessuno (neppure le imprese e i capitali italiani) vuole investire in Italia. Ma queste condizioni ricordano quelle di paesi molto distanti e diversi da noi, come lo Sri Lanka o Gibuti, che hanno accettato e accolto ingenti capitali cinesi proprio per mancanza di capacità attrattiva.



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