Le mire espansionistiche della Belt and Road Initiative – il progetto infrastrutturale e politico della Cina foriero di nuove tensioni tra Pechino e Washington, e al quale l’Italia ha annunciato di voler aderire nonostante la netta contrarietà manifestata ufficialmente dagli Usa – sono da tempo monitorate dalla nostra intelligence.
I PASSAGGI DELLA RELAZIONE
Nell’ultima relazione del Dis al Parlamento, presentata a fine febbraio dai vertici del dipartimento alla presenza del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ci sono alcuni passaggi che sintetizzano le mosse della Repubblica Popolare e gli effetti nazionali e internazionali derivanti dal suo attivismo.
UNA CONTESA GLOBALE
“La Cina”, spiega il documento, “ha ribadito la crescente capacità di incidere profondamente sulla ridefinizione degli equilibri mondiali: non esistono, di fatto, aree del pianeta […], dove la sua influenza non si sia consolidata o non risulti in rapido incremento. Il progetto Made in China 2025 (il piano con cui la Cina intende diventare autosufficiente nell’alta tecnologia, ndr) e la Bri”, prosegue il documento, “sono i principali strumenti cui Pechino affida la propria affermazione nelle molteplici dimensioni in cui si articola oggi il potere moderno”. Disegni, aggiungono i Servizi, “di lungo periodo e di portata assolutamente epocale” e che hanno portato a “interlocuzioni critiche a distanza” con l’Occidente, “soprattutto con gli Usa”, su temi “che hanno fatto riferimento non solo all’ambito commerciale, ma anche al dominio tecnologico (e quindi alla sfera della sicurezza nazionale), delineando i contorni di un confronto strategico suscettibile di declinarsi anche in una dimensione geopolitica”.
LA POSIZIONE USA
In questo quadro, rispetto all’eventualità che l’Italia aderisca all’iniziativa cinese con la firma di un memorandum d’intesa, Washington non ha usato giri di parole. Ieri l’account Twitter ufficiale del Consiglio per la Sicurezza nazionale statunitense (i cui tweet vengono registrati e archiviati come atti governativi) ha scritto: “L’Italia è una grande economia globale e una grande destinazione per gli investimenti. L’approvazione della Bri conferisce [invece] legittimità all’approccio predatorio cinese agli investimenti e non porterà alcun beneficio agli italiani”, aggravata, secondo l’amministrazione Usa, dal fatto che Roma è un membro del G7 e sarebbe il primo di questo “club” ad avallare politicamente a livello governativo i piani espansionistici di Pechino.
IL CASO HUAWEI
L’analisi delle ripercussioni della Bri riportate dalla relazione dell’intelligence appare in questo senso molto chiara, ma tocca solo di striscio un altro dei dossier che secondo svariati esperti vede mettere a repentaglio la collocazione internazionale dell’Italia e il suo rapporto con gli Stati Uniti: il caso Huawei.
Gli Usa hanno più volte lanciato moniti ai loro alleati su questo dossier, l’ultimo dei quali giunto dal segretario di Stato Mike Pompeo, che in una recente intervista a Fox Business Network ha ribadito che Washington potrebbe non condividere più informazioni con gli Stati (soprattutto quelli che ospitano basi Nato, come l’Italia) che adotteranno tecnologia della compagnia di Shenzhen per l’implementazione della loro rete 5G, auspicando che “comprendano il rischio non solo per i loro cittadini, ma anche per la collaborazione con gli Stati Uniti per garantire la sicurezza globale”. L’amministrazione Usa teme che le aziende cinesi – che respingono queste accuse – possano essere potenziali veicoli di spionaggio a beneficio delle autorità della Repubblica Popolare, circostanza che metterebbe pericolosamente dati sensibili di uno Stato nelle mani di un Paese “non alleato” come la Cina. E ciò è stato reso chiaro anche nella Penisola, dove l’ambasciatore americano Lewis Eisenberg ha manifestato la posizione americana in una serie di incontri tenuti anche con lo stesso Conte e con il vice presidente del Consiglio e ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, titolare del dossier 5G.
Un mese fa il Mise ha smentito l’intenzione di precludere alle aziende cinesi lo sviluppo della nuova tecnologia in Italia avvalendosi del golden power (una posizione che, in questo caso, sembra prevalentemente del Movimento 5 Stelle, dal momento che la Lega ha presentato in Commissione Trasporti attraverso il suo deputato Massimiliano Capitanio un’interrogazione al titolare del dicastero di Via Veneto su WiFi-Italia, un altro progetto di connettività che vede coinvolta Huawei).
Dopo il ‘warning’ americano, il Copasir – il Comitato parlamentare di vigilanza sull’intelligence – è intenzionato a raccogliere maggiori informazioni sull’intera vicenda e per questo dovrebbe ascoltare nelle prossime settimane i due esponenti del governo.
Tuttavia, anche in questo caso, come aveva riportato a suo tempo questa testata citando un articolo di Claudio Gatti sul Sole 24 Ore, i servizi segreti italiani “avevano messo in guardia il governo dall’avanzata della multinazionale hi-tech, che è privata ma nondimeno riceve cospicui finanziamenti da alcune delle più grandi banche governative cinesi come Bank of China e Industrial & Commercial Bank of China e ha come fondatore un ex ufficiale dell’Esercito di liberazione popolare cinese, Ren Zhengfei.
Una prima avvisaglia del rischio connesso all’apertura delle porte a Huawei in Italia arrivò addirittura nel 2012, quando un report del Dis consegnato all’allora ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera sollevava dubbi sulla sicurezza di contratti con la pubblica amministrazione dell’azienda cinese, che già vantava accordi con asset strategici come Terna, Enel, Poste Italiane, Fastweb, Ferrovie dello Stato e soprattutto con Telecom Italia, con cui, ricordò Gatti sul Sole, nel 2008 ha siglato un’intesa per gestire la rete di fibre sottomarine MedNautilus e nel 2012 un’accordo pluriennale il cui valore fu stimato fra 1 e 3 miliardi di euro. Solo un anno dopo, il vicepresidente del Copasir Giuseppe Esposito (Pdl) tornò sulla vicenda Telecom-Huawei auspicando l’istituzione di “una task-force per monitorare quanto sta accadendo nei grandi gruppi”. L’appello rimase inascoltato. È del 2014, anno prolifico per le acquisizioni dei cinesi nelle infrastrutture italiane, un nuovo report del Dis che alzò l’asticella. Per la proprietà e la gestione delle reti gli 007 italiani suggerivano per l’appunto di seguire il modello del Regno Unito, che aveva permesso a Huawei ma a condizione di essere soggetta a uno strettissimo controllo. Ancora una volta il suggerimento cadde nel vuoto. E lo stesso sembra accadere oggi”.