Il pensiero difforme accende bagliori inquietanti tra gli apologeti del “pensiero conforme”, variante un po’ scadente di quel pensiero unico al quale si sacrificano sugli altari della modernità lacerati significativi di libertà intellettuale. E più è “difforme” pensare diversamente/altrimenti rispetto alla vulgata dominante su qualsivoglia feticcio consacrato dal “politicamente corretto”, più la reazione diventa terribilmente irragionevole contro i reietti che osano ancora interrogarsi o difendere ragioni semplicemente non condivise eppure non eversive.
Accade così ovunque in Europa in questi magri tempi. È accaduto in Italia tante volte, ma mi ha impressionato che, da ultimo, vittima di cotanta insofferenza nei confronti del pensiero difforme sia stato Corrado Ocone, filosofo liberale e non liberal, tantomeno liberista tout court, la cui indiscutibile filiazione crociana oggi viene addirittura vista con sospetto da chi, in quello che è stato il suo mondo di appartenenza politico-culturale, lo considera quasi un’anomalia.
Forse mi sbaglio, ma questa è l’impressione che ricavo dai frammenti di notizie che mi giungono dall’Italia mentre cerco di decifrare la deriva giacobina dei gilets jaunes. E sono notizie poco rassicuranti. Ocone, apprendo, è stato “dimissionato” da direttore scientifico della Fondazione Einaudi – o forse costretto alle dimissioni, non saprei – per difformità dal pensiero corrente tra i liberali italiani. E questo è già un ossimoro inquietante. Poi leggo un suo breve scritto pubblicato sull’Hufftington Post e dò uno sguardo malinconico a due libri poggiati sullo scrittoio, forse non per caso: L’identità infelice di Alain Finkielkraut e Serotonina di Michel Houellebecq. Il “pensiero difforme” è un ingombro, mi dico. E purtroppo Ocone lo assevera raccontando la vicenda che lo riguarda a fondamento della quale c’è la negazione della dialettica che per un liberale deve essere terribile. Rivela: “Questa dialettica è stata possibile conservarla fino a qualche mese fa, ma poi sono stato gradualmente isolato: la Fondazione ha scelto di diventare una fondazione liberal, piuttosto che liberale, per essere il braccio politico in Italia dell’Alde, cioè di quel raggruppamento presieduto a livello europeo da Guy Verhofstadt”.
Scelta legittima, non c’è dubbio, ma perché non far convivere anime diverse sotto lo stesso segno com’è stato nei momenti migliori della storia del liberalismo in Italia? “Da quel momento tutto si è dovuto allineare: dal sito, alle pubblicazioni, ai messaggi sui social (a cui mi veniva addirittura chiesto di apporre dei like come segno di fedeltà)”, ha rivelato Ocone, la cui partecipazione al Convegno di “Nazione futura” con l’ex presidente ceco Vaclav Klaus, una settimana fa, probabilmente ha reso incompatibile la sua presenza ai vertici della Fondazione. Dunque c’è una ragion pratica che si sposa ad una ragione culturale nel variopinto universo del pensiero unico. E, nel caso, è la difformità di vedute, almeno così ci sembra di comprendere, circa l’idea di Europa che Ocone manifesta, mentre lo si vorrebbe accucciato ai piedi dell’eurocrazia, custode dell’Unione che registra il suo catastrofico fallimento.
Diciamo le cose come stanno. È evidentemente insopportabile e fastidioso per un certo mondo che pur si definisce depositario dei valori liberali che un filosofo come Ocone, per quanto disomogeneo rispetto alla tendenza prevalente che ha travolto il liberalismo classico per farsi liberal, partecipi a convegni eterodossi, abbia frequentazioni “inopportune” rispetto a quelle cui mai la vecchia e gloriosa Internazionale liberale, presieduta prestigiosamente da Giovanni Malagodi, si sarebbe per principio o ripicca opposta, pubblichi articoli a titolo personale esprimendo il suo libero pensiero e addirittura scriva un libro dal titolo che potrebbe piacere ai menzionati Finkielkraut e Houellebecq (ma non solo), Europa. L’Unione che ha fallito. Preso atto di tutto ciò, al filosofo “difforme” non resta altro che prendere atto della situazione e dare la sua disponibilità a togliere il disturbo. Con sollievo dei suoi antichi sodali che, come usa oggi, lo sollevano dall’incarico con un messaggino.
Poca cosa, si dirà. È un sintomo, comunque, del malessere che s’insinua nella cultura e nella politica. Quello stesso malessere che Ocone vede dilagare nella “razionalizzazione” dell’Unione europea. In Europa, pubblicato da Historica (pp.87, € 12), con la prefazione di Francesco Giubilei, presidente di “Nazione futura”, Ocone scrive: “Il fatto è che l’Europa, soprattutto con il passare del tempo, sulla scia di quanto facevano altre organizzazioni sovranazionali, ha preso sempre più le sembianze di una vera e propria macchina razionalizzatrice. Ha centralizzato molte sue funzioni e ha creato, come da manuale, una burocrazia potente e che tenta con tutti i mezzi di autopreservarsi (la weberiana “gabbia d’acciaio”). Il che vuol dire che la pretesa di costruire su fondamenta astratte, alla maniera dei vecchi illuministi diventati giacobini nel difendere le loro mostruosità razionaliste e crudelmente inefficaci ai dine della costruzione di un “ordine nuovo”, una identità europea non poteva che portare alla degenerazione di un’idea che nasceva all’indomani della seconda guerra mondiale come con ben altre intenzioni.
Ricordo che Robert Schumann, uno dei “fondatori” dell’Europa, in un suo aureo libro uscito poco prima della scomparsa, rimpiangeva in una certa misura il suo impegno europeista dal momento che vedeva la costruzione immaginata nascere senza un profilo culturale ben definito, ma solo come uno spazio di libero mercato. Si sarebbe dovuto mettere riparo per tempo a questa mancanza e si sarebbe potuto sfruttare la inutile Convenzione per la Costituzione europea del 2003 al fine di rimettere a posto ciò che nei decenni non era stato fatto. Ma furono inutili tutti i richiami alla necessità dell’inserimento nel “preambolo” di questo documento fondativo alle radici storiche e culturali ed i costituenti diedero forma ad un mostro iperburocratico che espelleva dalla costruzione gli elementi, ritenuti evidentemente “decorativi”, che avrebbero dovuto costituire l’anima dell’Europa, da quelli ellenico-romani a quelli cristiani.
Il Moloch inestricabile di leggi, norme, regolamenti, direttive contraddittorie ed incomprensibili ha reso l’Unione europea estranea ai suoi popoli. Ocone lo denuncia con raffinatezza e argomentazioni inconfutabili. Questo è stato il suo “errore”, probabilmente, che lo ha reso incompatibile con il mondo liberal che trae origine da altre logiche culturali e dà vita a dinamiche profondamente diverse da quelle immaginate, per esempio, da un Michael Oakeshott e perfino da von Hayek, vale a dire la compatibilità del liberalismo con tendenze conservatrici declinate – se si vuole – alla maniera di un Reagan e di una Thatcher. Roba che dà l’orticaria di questi tempi piegati nell’esaltazione del multiculturalismo e del mercatismo, per non parlare degli astratti diritti civili che mettono in discussione gli originari asset della convivenza in ossequio ad un conformismo elaborato appunto nei santuari liberal soprattutto americani e veicolati da grandi organizzazioni sovranazionali che non rispondono né ai popoli, né agli Stati, ma a poteri che hanno i loro terminali nella politica priva di primato e spossessata delle sue prerogative, ridotta, come osserva Ocone, “ad una sezione dell’etica, del diritto, dell’economia”.
Ma una sovranità europea è possibile? Personalmente credo di sì. A condizione che siano le genti, le nazioni, le comunità, i governi del Vecchio continente a costruire una koiné rispondente al pensiero difforme. Giubilei nella prefazione al volume di Ocone scrive: “Alla ‘creazione di un unico Stato cosmopolitico’ va contrapposta un’Europa dei popoli e delle patrie, non una pachidermica struttura sovranazionale lontana dalle esigenze e volontà dei cittadini, ma una confederazione di nazioni che conservino le identità e i particolarismi dei singoli popoli. L’unità europea dovrebbe ripartire da un progetto e da basi culturali, ancor prima che politiche ed economiche”.
Questa tendenza va prendendo piede. Ed infastidisce i tecnocrati ed i loro turiferari. E la conseguente riscoperta della nazione, addirittura dello Stato-nazione, segnalato oltre vent’anni fa come imbattibile riferimento teorico e politico da un grande liberale-conservatore, tedesco- britannico, che non si porta più, Ralf Dahrendorf, infastidisce gli apologeti del “pensiero unico” che hanno in uggia l’identità e coltivano amorevolmente la materialità. Ma i popoli non sono eserciti della robotica. Nonostante tutto hanno un’anima profonda che è possibile distruggere, ma al prezzo di annientare un mondo, il nostro mondo, il mondo europeo che non possiamo sostituire con nient’altro.
Conclude Ocone: “Quella a cui penso è un’Unione che non emetta regolamenti, direttive, normative, con la quale tesse ogni giorno la sua onnipervasiva rete, ma lasci libero spazio allo svolgersi anarchico degli spiriti che è intrinseco alla sua tradizione cristiana e liberale. Che preservi, ovviamente in modo non rigido, le tante e multicolori diversità che costituiscono la bellezza e la forza di questa parte di mondo. Un’altra Europa è possibile”.
Lo crediamo anche noi. Come lo credeva l’amato Stefan Zweig, mirabile ritrattista del “mondo di ieri”. E non è detto che sia soltanto un miraggio. Le patrie quando sono in pericolo hanno capacità di ridestarsi inimmaginabili da chi vorrebbe ridurle al silenzio. L’Europa può rinascere. Non è un progetto. È una prospettiva di civiltà.