Qualcuno che ha a cuore la democrazia e la sicurezza può pensare che gli assassini di Pamela Mastropietro, la ragazza romana massacrata a Macerata, non debbano scontare fino all’ultimo giorno la condanna che sarà stabilita da un giudice? Qualcuno pensa che stessa sorte non debba toccare a Ciro Russo, che in Calabria ha ucciso sua moglie Maria Antonietta dandole fuoco, o che non debba essere punito “in maniera esemplare”, come si diceva una volta, l’ecuadoregno condannato per l’omicidio di sua moglie, ma con le attenuanti per essere stato illuso? Reati ingiustificabili che negli ultimi giorni sono stati accomunati dal commento del ministro dell’Interno, Matteo Salvini: devono “marcire in galera”.
L’aggressività verbale e l’uso disinvolto del verbo marcire da parte di Salvini non sono una novità. Cesare Battisti si è preso gioco per decenni delle vittime della sua follia terrorista e dei loro parenti durante una lunghissima latitanza. Ha irriso chi ha tentato per tanti anni di ottenerne l’estradizione arrivata solo grazie al nuovo presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, e alla collaborazione del governo boliviano e il suo arresto è stato un grande successo dello Stato italiano. Eppure in Italia, culla del diritto, fu girato quel vergognoso video che immortalava Battisti con una coppia di agenti di Polizia e poi con una della Polizia penitenziaria (che si dettero il cambio per una “lottizzazione” dei meriti) senza capire che cosa stesse accadendo: il suo era uno sguardo sgomento e impaurito. È banale ricordare che la differenza tra uno Stato democratico e un terrorista sta nella punizione che gli infligge, non nel trattarlo in quel modo. Anche allora Salvini disse che Battisti doveva marcire in galera.
Perché ripetere in continuazione, a ogni delitto più o meno grave, quel verbo? Perché interpretare un ruolo istituzionale dando l’impressione che uno Stato democratico e liberale voglia vendicarsi anziché punire? La definizione che il vocabolario Treccani dà del verbo marcire in relazione al carcere è “perdere le forze fisiche o spirituali nell’inazione, volontaria o forzata, infiacchirsi, languire, intristire”. Senza voler credere che la detenzione riesca sempre a “recuperare” il detenuto, la gente comune vorrebbe semplicemente la certezza della pena, tema su cui da anni si scontrano due diverse filosofie politiche e giuridiche. Troppi sconti, troppi reati gravissimi come l’omicidio e la strage per i quali è concesso il rito abbreviato. Quando dopo un delitto, nelle dichiarazioni ai telegiornali, i parenti delle vittime dicono che vogliono giustizia esprimono un concetto elementare: nessuno chiede altro che l’applicazione della legge. “Tanto più giuste sono le pene, quanto più sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi” scriveva Cesare Beccaria e Michel Foucault, nel suo celebre “Sorvegliare e punire”, ricorda che nella seconda metà del XVIII secolo si protestava nelle assemblee legislative e tra i giuristi contro il supplizio, che arrivava fino allo squartamento del corpo del condannato, poi abolito con la Rivoluzione francese.
Il marcire in carcere è l’equivalente “democratico” del supplizio oltre due secoli dopo? Paragone certo esagerato, eppure resta un forte dubbio sul messaggio che arriva ai cittadini (visto che il ministro dell’Interno lavora per la sicurezza di tutti) e agli elettori della Lega: sicuri che augurarsi l’annientamento fisico e psicologico di un detenuto porti voti? Forse è meglio battersi in Parlamento per correggere le tante storture dell’ordinamento giudiziario e di quello penitenziario proponendo leggi da discutere rapidamente, senza farle marcire.