Il governo italiano, nello specifico il ministero dell’Economia, ha un problema, anzi due. Il deficit e l’Iva, connessi tra loro. Questa mattina i rappresentanti della Banca d’Italia sono intervenuti al Senato dove sono in corso le audizioni sul Documento di economia e finanza, prima che il testo di finanzia pubblica propedeutico alla manovra d’autunno approdi nell’Aula di Palazzo Madama. Nel suo consueto linguaggio tecnico ma non per questo privo di messaggi alla politica Via Nazionale, rappresentata per l’occasione dal capo-economista Eugenio Gaiotti, ha analizzato il Def gialloverde partendo proprio dal disavanzo.
Secondo Bankitalia è lodevole il fatto che il governo abbia nelle more un riassetto fiscale a base di semplificazioni (flat tax, qui l’intervista di ieri al senatore in quota Lega, Paolo Arrigoni) e riordino delle agevolazioni fiscali. Il problema è che il tutto deve essere adeguatamente “compensato da razionalizzazioni della spesa o delle cosiddette spese fiscali, senza le quali si andrebbe incontro ad aumenti del disavanzo non compatibili con la riduzione del peso del debito pubblico”. Il messaggio è chiaro, ridurre le tasse vuol dire anche incassare di meno, ma per mantenere gli standard di spesa per il funzionamento dello Stato occorre che i soldi entrino da qualche altra parte. Per Palazzo Koch le risorse vanno individuate nei tagli alla spesa improduttiva e non messe a bilancio tramite una sforamento del deficit. A meno che, e qui Bankitalia chiama in causa l’altra questione impellente, non si aumenti l’Iva per compensare la riduzione del carico fiscale sulle imprese.
Il governo, come è noto, vorrebbe evitare a tutti i costi lo scatto delle clausole nel 2019, che solo per il 2020 valgono 23 miliardi di euro (se l’imposta aumentasse anche nel 2021 si arriverebbe a 52). E questo nonostante nello stesso Def l’esecutivo abbia previsto l’aumento dell’aliquota Iva, salvo poi impegnarsi politicamente a bloccarla. Ma secondo gli economisti di Via Nazionale, che in questo senso sposano la linea del ministro Giovanni Tria, non c’è molta scelta: se si riduce, per esempio, l’Irpef, l’Iva deve salire, pena uno sforamento del deficit che proietterebbe l’Italia fuori dal Patto di Stabilità. “Escludendo l’attivazione delle clausole di salvaguardia sull’Iva, il disavanzo si collocherebbe meccanicamente al 3,4 per cento del prodotto nel 2020, al 3,3 nel 2021 e al 3 nel 2022”, ha spiegato Gaiotti. Riassumendo: bene tagliare le tasse alle imprese e alle famiglie, ma è imperativo mantenere l’equilibrio di bilancio, dunque niente deficit aggiuntivo. E allora o si taglia la spesa improduttiva o sale l’Iva.
Capitolo a parte, ma nemmeno tanto, lo spread. Se l’Italia rimettesse in moto il motore del Pil, sarebbe tutto più facile, non occorrerebbe cioè scegliere tra i tagli di spesa o l’Iva. Il problema è con uno spread fermo intorno ai 250 punti base, si rischia di vedere un pezzo di Pil andare in fumo, se non altro per la più alta spesa per gli interessi sulle nostre emissioni di debito (le cedole da garantire a chi ci compra i Btp, prestandoci denaro). “In linea con le nostre previsioni è la considerazione fatta nel Def, secondo cui l’elevato livello dello spread inciderà negativamente e in misura crescente, sulla crescita negli anni successivi al 2019 stima che un aumento permanente dello spread pari a 100 punti base, come quello attuale, riduce la crescita di 0,1 punti percentuali dopo un anno e a 0,7 dopo tre”.