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Rischio jihad sempre alto. La Nato si adegui ai nuovi nemici. Parla Manciulli

Crescono i simpatizzanti jihadisti che mantengono alto il rischio terrorismo, tutt’altro che ridimensionato dalla sconfitta militare dell’Isis, e vanno quindi aumentati gli investimenti su questo fronte. Andrea Manciulli, presidente di Europa Atlantica e grande esperto di jihadismo, invita la Nato a rilanciare i valori dell’Occidente in occasione dei suoi 70 anni adattando i propri obiettivi ai cambiamenti in atto a livello globale, dalle guerre economiche e cibernetiche all’aggressività di Paesi emergenti.

Uno degli argomenti al vertice per i 70 anni della Nato saranno anche le minacce globali e la lotta al terrorismo. C’è il rischio di un declassamento della minaccia dopo la sconfitta militare dell’Isis?

Sarebbe un errore se considerassimo la sconfitta sul terreno come un depotenziamento della minaccia terroristica, anzi è probabile che, essendoci una forte identificazione del mondo di simpatizzanti jihadisti con il Califfato, maturi una volontà di vendetta diffusa, una voglia di aderire alla causa in modo diverso e nei prossimi anni questo può far crescere la pericolosità e le velleità del terrorismo.

Simpatizzanti che dunque potrebbero prendere metaforicamente il testimone dei combattenti per raggiungere gli obiettivi del Califfato?

Puntano a vendicare la sconfitta, dunque credo che sbaglino quei Paesi che alimentano l’idea per cui con l’Isis abbiamo chiuso la partita: non è così. Per questo mi associo al mondo dell’intelligence italiana che ha sempre lavorato bene e bisogna metterla nelle condizioni per continuare a farlo. In particolare, sapendo che ci sono tre grandi questioni. La prima è che molti indicatori rivelano una ripresa del qaedismo che non è più quello del passato perché invece cerca di mutuare alcune innovazioni dell’Isis, innanzitutto il jihad mediatico.

Al Qaeda quindi sta diventando più pericolosa dell’Isis?

Ci sono segnali di una rinnovata mobilità del suo gruppo dirigente, bisogna fare molta attenzione a depotenziare la vicenda afghana perché il flusso dei foreign fighter va verso l’area Afghanistan-Pakistan riuscendo anche ad allargare il fenomeno. È il ritorno al programma di Osama bin Laden del 2004, una forte espansione della minaccia jihadista verso il Nord Africa, dove si collega con altre forme di criminalità, e l’Asia cercando di endemizzare il fenomeno e così allargarlo a livello globale. E’ fondamentale rispondere a questo primo volano di minaccia.

Quali sono le altre questioni?

I simpatizzanti. L’ondata mediatica che l’Isis ha creato in Occidente, in Africa, nei Balcani ha forgiato un popolo di simpatizzanti: non sappiamo né quando né se e come diventeranno un problema. Molti degli attentati degli ultimi anni sono stati compiuti da questa tipologia di persone, giovani e presenti in rete, contro cui occorrono risposte preventive più che repressive. E’ evidente che anche su questo si debba investire di più nella lotta al terrorismo, non il contrario. Faccio una constatazione da storico del jihadismo: tutti i momenti di apparente silenzio sono quelli in cui c’è una grande riorganizzazione e lo temo anche per questa fase di relativo silenzio. Tutto ciò deve spingerci a rafforzare la struttura di antiterrorismo di tutto l’Occidente, favorendo una maggiore collaborazione, e anche quella dell’Italia.

Sembra di capire che Al Qaeda, che ideologicamente non ha mai puntato a uno Stato come il Califfato bensì a creare più fronti, impari dall’Isis la capacità tecnologica.

Soprattutto in Asia c’è una nuova generazione fortemente tecnologizzata che può essere un nuovo lievito per il terrorismo: sta accadendo nel Subcontinente indiano, con la minoranza Uiguri in Cina o in alcune ex repubbliche sovietiche come Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan, Kazakistan dove le organizzazioni locali stanno intensificando i rapporti con il qaedismo e quindi diventano sempre più importanti per il futuro del jihadismo. Anche nel Sahel c’è un rischio di fortissima sovrapposizione: Libia, Ciad, Mali, Burkina Faso, Mauritania dove traffici illegali e terrorismo rischiano di endemizzare un fenomeno molto preoccupante anche per l’Europa.

Come deve porsi la Nato di fronte a queste sfide?

Il 70° anniversario non dev’essere un’occasione celebrativa, ma deve servire a ridiscutere il futuro dell’Alleanza. Il problema non è solo di costo, come viene detto, ma anche di rilancio dei valori: la democrazia e la libertà sono valori di impressionante attualità e vanno declinati in base alla nuova forma di minaccia. Riguardo alla Nato, questo concetto impone due ragionamenti: uno orizzontale e l’altro verticale. Il primo è che geograficamente sta cambiando la tipologia della minaccia. Stiamo assistendo all’emergere di nuovi attori dell’insicurezza o almeno del confronto strategico che non è più ancorato solo al confine della Guerra fredda, e quindi al rapporto con la Russia: ci sono Paesi emergenti aggressivi sul fronte cibernetico e della ricerca della supremazia economica che stanno creando una nuova stagione di proliferazione spuria. Ecco perché va data una nuova dimensione all’orizzonte della Nato senza la quale è evidente che si finisca per affievolire la spinta valoriale.

E qual è invece il ragionamento “verticale”?

Riguarda il mutamento della tipologia della minaccia, che non è più classica, statica, di deterrenza e guerra convenzionale, bensì il trionfo dell’asimmetria: terrorismo, minaccia cibernetica, guerra economica, guerra mediatica. Oggi l’insicurezza ci costringe ad agire seguendo il mutamento di queste tipologie di minaccia. Per esempio, è evidente che l’impatto dei media sulla percezione di sicurezza sia diventato devastante quasi come una guerra convenzionale: basta un atto di terrorismo o una paralisi cibernetica in un angolo del pianeta che rimbalza sull’etere e sulla comunicazione per far cambiare le abitudini delle persone con mutamenti significativi anche sugli orientamenti elettorali com’è avvenuto in Occidente in questi anni. Tutto ciò per la Nato è una nuova sfida.

Una sfida sempre più tecnologica.

Soprattutto per la minaccia cibernetica ci sono dei nodi ineludibili e delle contraddizioni inaccettabili: i Paesi che usano in maniera più forte e aggressiva le nuove tecnologie cibernetiche per cercare di influire e colpire gli altri sono gli stessi che vietano le stesse tecnologie al loro interno. Questo ci deve far riflettere perché non può esistere uno spazio della democrazia che è più vulnerabile di chi lotta contro una certa idea di democrazia.

Quale dev’essere il ruolo dell’Italia in questa Nato?

L’Italia deve cercare di giocare un ruolo attivo nel rilancio dei valori dell’Occidente perché non bisogna fare sconti all’Occidente statico, quello legato a una visione della sicurezza ormai del passato e che non tiene conto dell’orizzonte globale. Abbiamo fatto bene per questo a batterci per una Nato che sia attenta al fronte Sud. Nello stesso tempo dobbiamo essere i primi a difendere una certa idea di democrazia e di valori perché è l’unico modo per avere credibilità nel cambiare le cose e anche per essere rispettati.

Al vertice Nato certamente si discute anche della posizione della Turchia, membro dell’Alleanza che ha acquistato i missili S-400 dalla Russia. Il Financial Times ha riportato la posizione americana per cui ciò metterebbe a rischio la partecipazione di Ankara al programma F35. Ci sarà un chiarimento definitivo?

È una vicenda che non può essere accettata e che va contrastata. Siamo arrivati all’assurdità che un Paese si doterebbe sia degli strumenti di combattimento della Nato che di quelli di contrasto agli stessi strumenti acquistandoli da un Paese, la Russia, che è all’opposto della Nato. Ne va della natura stessa dell’alleanza militare. Ciò non toglie che debba essere inaugurata una stagione di dialogo con la Russia, ma nel rispetto delle nostre prerogative.

Quando si parla di terrorismo torna periodicamente il tema del finanziamento che vari Paesi fanno a favore di comunità islamiche. Come si può affrontare correttamente un argomento così delicato?

Non bisogna sovrapporre totalmente il fenomeno del finanziamento al terrorismo con quello del finanziamento alle organizzazioni religiose, operato da più Paesi e in diverse aree europee e balcaniche. C’è bisogno di accordi per una trasparenza completa e che riguarda tutti. Anche le comunità islamiche devono sforzarsi perché le due questioni non siano sovrapponibili.

Un’altra forma di terrorismo è quello del suprematismo bianco, riemerso con violenza con la recente strage di musulmani in Nuova Zelanda. In Europa assume più la forma del neonazismo. È sottovalutato?

Ha fatto bene la relazione del Dis al Parlamento a sottolineare che questo fenomeno esiste e che bisogna dedicare energie a contrastarlo. È crescente e purtroppo può far crescere anche la minaccia del terrorismo jihadista: si rischia uno scontro tra i crociati e gli “animi puri” dell’Islam. Non deve trionfare questa contrapposizione con il rischio di un’escalation e fa bene il sistema di sicurezza a perseguire una minaccia in crescita anche in Europa.

In questa complessa fase delle relazioni internazionali resta in primo piano la Via della Seta soprattutto dopo gli accordi dell’Italia e della Francia con la Cina. Si possono sintetizzare rischi e opportunità?

Dobbiamo pensare che sta cambiando un’era. Quando si è scelto il titolo “Via della Seta” non è stato banale, si è fatta una scelta con un valore ideologico e storico. La Via della Seta univa l’Europa all’Oriente nel Medio Evo, quella di Marco Polo, lungo la quale viaggiavano stoffe e spezie. Fu messa in crisi dalla fine della Pax mongolica nel Quattrocento e da allora, visto che i mercanti non potevano più attraversarla perché erano massacrati da mongoli e tartari, cominciò la stagione delle grandi scoperte perché gli europei cercavano di raggiungere l’Oriente via mare scoprendo l’America. Chiamarla Via della Seta significa probabilmente voler ricreare una contrapposizione tra quella via e la nascita dell’Occidente perché quelle grandi scoperte hanno introdotto la libertà e la democrazia. L’Italia e l’Occidente sbaglierebbero se permettessero un disegno che vada in questa direzione. Invece la società globale dovrebbe far convivere lo spazio atlantico e la Via della Seta, anzi con un ruolo di influenza dei nostri valori. Se invece volessimo approfittare del nuovo potente di turno, smarriremmo la nostra forza culturale che è la nostra vera ricchezza. Da questo punto di vista il futuro della Nato e anche dell’Italia deve comprendere la riaffermazione di alcuni valori fondamentali come la democrazia e la libertà.

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