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La Libia e un governo di separati in casa

Lega

Il dito e la luna. Infuria la guerra in Libia con prospettive sempre peggiori e in Italia il governo Conte manifesta aperte contraddizioni su come affrontare una crisi diplomatica che ci vede in prima linea. L’annuncio del presidente del Consiglio di avocare la materia istituendo una cabina di regia è un tentativo per ora non riuscito se uno degli azionisti dell’esecutivo, Matteo Salvini, continua a seguire la propria strategia. Il Movimento 5 Stelle cerca di attenuare i toni e il leader leghista attacca la Francia (che pure ha più di una colpa), Conte parla di crisi umanitaria e Salvini ripete che i porti resteranno chiusi. La spaccatura più netta è arrivata con l’intervista di Luigi Di Maio al Corriere della Sera: dire che la chiusura dei porti può essere solo una misura occasionale che non funzionerebbe di fronte a un intensificarsi della crisi definisce una posizione su cui non ci può essere mediazione con Salvini. Non solo: invitare l’alleato leghista, anche se con parecchi mesi di ritardo, a sollecitare i suoi alleati europei come Viktor Orbán ad accogliere una quota di migranti finora rifiutata rende trasparente una feroce concorrenza in vista delle elezioni europee.

Non c’è dubbio che il deflagrare di una crisi libica latente da tempo non è il migliore viatico per il voto imminente, ma il realismo, se non la responsabilità istituzionale, dovrebbe consigliare un vero coordinamento in politica estera che, in verità, il governo Conte non ha mai avuto. Quando Di Maio invita Salvini ad avere senso di responsabilità parla solo al proprio elettorato, cercando di recuperare voti a sinistra. E dunque si continua a guardare al dito dei voti anziché alla luna di una crisi che può spostare diversi equilibri, non solo geopolitici.

È gioco facile per le opposizioni evidenziare certe difficoltà. L’Onu ha quantificato in 16mila gli sfollati da Tripoli, ma se in 24 ore se ne sono aggiunti 2mila e se il generale Khalifa Haftar continuerà a bombardare colpendo perfino un deposito di libri scolastici, la cifra potrebbe aumentare a vista d’occhio. Anna Maria Bernini (FI) accusa il governo di navigare a vista e di non avere una strategia credibile di fronte a questi numeri perché “i ministri interessati litigano su tutto” mentre Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia e vicepresidente del Copasir, parla apertamente di pazzia di fronte a “una guerra per procura tra potenze arabe sunnite che fanno a gara a finanziare il fondamentalismo islamico” e di un profilarsi per l’Italia della “più grave sconfitta della storia repubblicana mentre il governo appare impotente e diviso”.

Dal frenetico intrecciarsi di contatti diplomatici dei prossimi giorni si potrà forse capire qualcosa in più mentre l’Italia si trova nel mezzo di iniziative continue: l’insistenza di Haftar non promette niente di buono visto che qualcuno deve pur avergli detto di andare avanti, come ha fatto l’egiziano Abdel Fatah al Sisi dopo l’incontro col generale; da Tripoli dicono che non si parla di tregua finché Haftar non si ritira; coincidenza vuole che gli americani abbiano schierato nel Mediterraneo anche il gruppo navale guidato dalla portaerei Lincoln, nell’ambito della VI flotta con base a Napoli. In tutto questo, c’è chi insiste ancora con il blocco navale davanti alla Libia come continua a dire Giorgia Meloni senza che i suoi sostenitori abbiano la più pallida idea di che cosa sia e senza sapere che non si può fare e che non si farà mai.

Quando Conte insiste sul rischio di una vera crisi umanitaria rilancia anche le preoccupazioni vaticane, non proprio in linea con quelle di Salvini. Andrebbe ricordato anche che la competenza sui porti è del ministero delle Infrastrutture e Danilo Toninelli il 12 aprile aveva detto che “Salvini senza il sottoscritto non avrebbe potuto fare niente. Ma non vado in giro a dirlo, non mi importa nulla”. L’importante è che ci siano “meno morti e meno barconi che partono dalle coste libiche”. Oggi toccherebbe anche a lui dire se i porti saranno chiusi (come vorrebbe Salvini) oppure aperti (come vorrebbero Conte e Di Maio).

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