Skip to main content

Perché i libici (compreso Haftar) tifano per lo stallo. L’analisi di Karim Mezran

mezran

Qualcosa si muove a Tripoli. La forza contrattuale del governo di Fayez al-Sarraj è ai minimi storici, come dimostra un recente tweet al vetriolo dell’inviato speciale dell’Onu in Libia Ghassan Salamé. Il feldmaresciallo Khalifa Haftar ha solcato con il suo esercito tutto il Sud del Paese, ed ha accettato di sedersi a un tavolo con Sarraj a Ghadames dal 14 al 16 aprile. “Deve trattare, senza la comunità internazionale il generale crolla in un attimo” spiega a Formiche.net Karim Mezran, senior fellow dell’Atlantic Council e uno dei massi esperti in circolazione di Libia, dove è in viaggio questa settimana. Non bisogna aspettarsi troppo da questi incontri a tavolino, ci spiega, “in Libia vince sempre il partito dello status quo”.

Il generale Haftar si è preso anche il Sud della Libia. È lui ormai l’unico interlocutore credibile?

Concordo solo relativamente. Haftar non ha preso il Sud, ci è passato attraverso. Ha fatto una manovra di avvicinamento a Tripoli per rivendicare di fronte alla comunità internazionale il controllo delle forze armate, non per prendere la città. Il generale è mosso più dalla sua ideologia che dall’ambizione personale

Quale ideologia?

Haftar è un nazionalista, vuole diventare il salvatore della patria, colui che ha cacciato gli islamisti e ha ricostruito l’esercito nazionale, non vuole fare il politico. È ben contento di lasciare l’onere della governance a uno come Fayez Al-Sarraj.

E Sarraj è disposto a ricoprire questo ruolo?

Non ha molta scelta. Se è ancora in piedi lo deve solo alla comunità internazionale. Quando Haftar si è avvicinato a Tripoli i russi hanno immediatamente convocato a Mosca il presidente dell’Alto Consiglio di Stato Khalid al Mishri, vicino ai Fratelli Musulmani, e lo stesso gesto hanno fatto i francesi inviando il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian da Sarraj. Un messaggio al feldmaresciallo: ti abbiamo aiutato fino a qui, ora ti devi fermare e trattare. La comunità internazionale riconosce ad Haftar un ruolo predominante, ma non egemone.

L’esercito di liberazione nazionale (Lna) ha circondato il campo di El Feel, dove l’Eni lavora al fianco della Noc. L’Italia dovrebbe preoccuparsi?

Dubito che prenderanno il controllo, ma anche se così fosse non cambierebbe nulla. L’ultima cosa che farebbe Haftar è fermare la produzione di petrolio, si metterebbe contro tutta la comunità internazionale. Lo usa come minaccia ma non può farne un’arma di ricatto, lo andrebbero a prendere di persona. Senza il denaro dagli Emirati Arabi, il supporto logistico dall’Egitto, il sostegno di Francia e Russia l’armata di Haftar, che non è un vero esercito, ma un insieme di gruppi tribali, beduini, salafiti, crolla in un secondo.

C’è anche l’Arabia Saudita, che ha recentemente accolto con ogni onore il feldmaresciallo a Rihad. Come si spiega il dinamismo dei sauditi sul dossier libico?

Non possono lasciar campo libero agli Emirati, vogliono giocare un ruolo anche loro. Mohamed Bin Salman ha bisogno di un successo internazionale. Se l’Arabia Saudita riuscisse a scavalcare Abu Dhabi ospitando un vertice di riappacificazione per la Libia consegnerebbe al principe un grande successo politico a basso prezzo.

Si avvicina la conferenza internazionale convocata dall’inviato speciale dell’Onu Ghassan Salamè a Ghadames. Cosa dobbiamo aspettarci?

Una chimera. Ammesso che si faccia non è ancora chiaro di cosa si tratti. Ci sarà una serie di entità libiche più o meno legittimate cui verrà sottoposto un foglio di carta con qualche clausola su Libia unita e democrazia che loro firmeranno. Non sarà questa la conferenza nazionale di cui il Paese ha bisogno, né sancirà una road map.

Cosa ha fatto naufragare tutti i tentativi di tracciarne una?

Manca una guida della comunità internazionale tale, ad esempio, da poter impedire agli emiratini e agli egiziani di fornire armi ad Haftar violando l’embargo. È mancata una potenza-guida che sostenesse l’inviato dell’Onu nel limitare le interferenze esterne per poter lavorare sulle congiunture interne, una ad una. I predecessori di Salamé come Kobler e Fayad sono andati incontro alla stessa sorte. Tre mesi sul campo per ambientarsi, altri tre per partorire un piano e gli ultimi tre per decidere come andarsene.

Dove è inciampato Salamé?

Aveva preparato un piano efficientissimo, poi si è fatto condizionare riscrivendolo un’infinità di volte e così ha perso credibilità fra i libici. Il partito maggioritario in Libia è quello dello status quo, di coloro che vogliono solo procrastinare il loro potere il più lungo possibile. Per usare una metafora calcistica, vince sempre chi “fa melina”.

E gli Stati Uniti cosa intendono fare? A luglio dopo il viaggio di Giuseppe Conte a Washington si era addirittura parlato di una cabina di regia Italia-Usa sulla Libia…

Di quella non c’è traccia. Sinceramente dubito che Trump sappia persino dov’è la Libia. Scherzi a parte, la risposta è semplice: non è considerata un interesse nazionale. L’amministrazione presta attenzione a Siria, Iraq, Egitto, ma non vuole spendere un dollaro per la Libia, e forse neanche hanno le risorse per farlo. Africom continua a chiedere istruzioni ma Washington non risponde, da mesi il National Security Council non pronuncia parola sulla situazione a Tripoli. L’unico interessato era il generale Jim Mattis, che aveva chiesto a un gruppo di think tanks uno studio per trovare una via d’uscita, ma è stato silurato e la stessa fine ha fatto la strategia americana in Libia.

×

Iscriviti alla newsletter