L’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, ha ospitato martedì a Riad Kenneth McKenzie generale quattro stelle dei Marines che guida il CentCom il comando del Pentagono che copre l’areale mediorientale dall’Egitto all’Afghanistan. L’Arabia Saudita ha voluto dare particolare risalto al faccia a faccia – il principe MbS è anche ministro della Difesa e praticamente a capo di tutto il sistema di sicurezza del regno – sottolineando che l’argomento che ha condotto i colloqui è stato la “cooperazione tra i due paesi”, come precisa la Spa, agenzia di stampa saudita.
Data la tipologia di visita, quando si parla di “cooperazione” in questa circostanza si tratta di quella in ambito militare. Focus particolare, ovviamente, la regione, ossia il Medio Oriente, dove gli Stati Uniti di Donald Trump stanno accelerando un complicato progetto strategico di disingaggio – che non è una novità assoluta, ma segue un riequilibrio sentito come necessità negli ultimi decenni – che prevederebbe l’affidamento di segmenti nei dossier aperti ad alleati e partner. Un metodo per gestire la leadership più da remoto.
Da tempo gli americani parlano della necessità che i principali attori regionali aumentino il proprio coinvolgimento in situazioni di sicurezza e lotta al terrorismo. L’amministrazione Obama, per esempio, si era lamentata più volte che l’apporto dell’Arabia Saudita e di altri paesi del Golfo fosse troppo limitato nella lotta allo Stato islamico avviata nel 2014. Hanno soldi, hanno forza, hanno mezzi, dovrebbero impegnarsi di più: è il mood americano che con Trump prosegue, anche se Riad non è mai stata così vicina a Washington – almeno formalmente, perché ci sono alcuni elementi critici: per esempio, l’esposizione saudita alla Cina o, ancora, le questioni collegate al prezzo del petrolio via Opec che Riad, secondo Trump, dovrebbe gestire come lui chiede.
Un terreno perfetto per l’applicazione della richiesta americana – che suona più o meno così: impegnatevi di più su qualcosa, in cambio dell’appoggio politico-diplomatico che vi offriamo – potrebbe essere la Siria. Da quando il presidente ha annunciato il ritiro delle forze speciali che operano nel paese, l’amministrazione ha inviato a Riad messaggi più o meno diretti. A fronte dell’alleggerimento della propria presenza, Washington pretende un aiuto dai partner alleati: primi fra tutti proprio i sauditi, e poi gli emiratini (le due monarchie hanno politiche estere piuttosto collegate in questo momento).
Anche perché la presenza siriana americana ha un triplo scopo – combattere i baghdadisti, controllare l’espansionismo iraniano, limitare la Turchia – che è nel pieno interesse delle monarchie del Golfo che potrebbero subire problematiche di sicurezza (e anche strategiche) da tutte e tre le componenti-target della missione Usa.
La richiesta di cui McKenzie potrebbe essersi fatto portatore operativo, anche davanti a Re Salman e altri notabili di corte, è per certi versi molto simile a quella che il senatore Lindsey Graham – consigliere informale ma molto ascoltato della Casa Bianca – ha avanzato nei giorni scorsi all’Italia tramite un’intervista al CorSera: se vi impegnate di più in Siria, mettendo a disposizione forze per sostituire quelle americane nel controllo della sudata stabilizzazione al nord del paese, allora noi potremmo gettare il peso politico, diplomatico e di deterrenza dell’America sul dossier libico.
C’è anche una questione temporale perfetta. Gli americani vogliono che qualcuno prenda in mano in modo consistente e attivo il progetto “Middle East Strategic Alliance” (o Mesa), quello che viene giornalisticamente semplificato in “Nato Araba”, un’alleanza di paesi mediorientali simile a quella atlantica che Trump ha benedetto a maggio 2017 (quando volò per il suo primo viaggio all’estero in Arabia Saudita) e gli Stati Uniti stanno spingendo almeno dal 2015, anno in cui MbS s’era formalmente lanciato nella costruzione di un suo prodromo.
L’obiettivo, è chiaro, è sempre quello: avere partner, alleati, amici, fidati che si prendano sulle spalle il peso di certi fascicoli che gli Usa non intendono più sostenere praticamente-da-soli, sebbene vogliano mantenerne il controllo. Washington però fatica a stabilire gli obiettivi dell’organizzazione militare con Riad, mentre la scorsa settimana l’Egitto s’è addirittura defilato dalla Mesa.
Che molte delle relazioni tra i due paesi in questo momento stiano ruotando attorno alla sfera militare è stato reso più chiaro dalla mossa con cui Trump ha deciso di colmare il vuoto di un ambasciatore in Arabia Saudita – sede vacante da due anni – con il generale in pensione John Abizaid, uscito proprio dal CentCom come comandante.
Mercoledì 3 aprile, il Senato ha approvato la sua nomina all’unanimità – entrerà in ufficio a novembre – a testimonianza che sotto questo punto di vista delle relazioni con Raid i congressisti sono molto più allineati con l’amministrazione rispetto ai dubbi espressi riguardo al caso Khashoggi o alle attività saudite in Yemen.
In Yemen la Nato Araba in versione Beta ha provato un primo intervento operativo per salvare il paese, dagli esiti non certamente positivi. Quattro anni di guerra contro i ribelli Houthi senza ottenere risultati nonostante la superiorità tecnologica, con migliaia di vittime civili e una crisi umanitaria da gestire.
Aspetti imbarazzanti, che avevano portato i congressisti a chiedere lo stop dell’aiuto di intelligence che gli Stati Uniti stanno fornendo alla coalizione anti-Houthi: ieri la Casa Bianca ha messo il veto alla risoluzione del Congresso ritenendola “non necessaria” (gli americani in Yemen passano alcune informazioni ai sauditi sui movimenti dei ribelli, immagini da satelliti e droni e dritte dal campo, dove, in maniera del tutto indipendente, gli Usa hanno un contingente di commandos impegnati nella lotta al terrorismo jihadista).
(Foto: Saudi Press Agency)