Il presidente sudcoreano, Moon Jae in, è a Washington per incontrare Donald Trump e cercare di rianimare i nuke talks nordcoreani, caduti in una fase di apnea dopo il fallimento del vertice tra l’americano e il satrapo Kim Jong Un (fine febbraio, Hanoi, Vietnam).
Moon è stato il motore del sistema negoziale che si è creato da un po’ più di un anno a questa parte attorno al dossier nordcoreano dopo la fase guerresca in cui Trump minacciava un “bloody nose attack“, un attacco durissimo che avrebbe lasciato Pyongyang a terra (come un pugile quando viene colpito al naso e sanguinante al tappeto non riesce a rialzarsi e contrattaccare).
I due, leader di paesi che conservano un’alleanza storica, non hanno grossa empatia personale: questione che è sfociata anche sul piano politico di quell’alleanza, con Trump che ha chiesto a Seul di pagare per il dispiegamento difensivo del sistema Thaad (che gli americani avevano piazzato per proteggere la Corea del Sud da eventuali attacchi del Nord) e di alzare l’aliquota di contribuzione per finanziare la presenza del contingente USFK, la US Force Korea, che sta lì dalla guerra che all’inizio degli anni Cinquanta spaccò a metà la penisola.
Insomma, non è stato solo l’esito del vertice vietnamita che ha fatto scendere l’approval di Trump in Corea del Sud al 41 per cento: nei giorni dopo il primo incontro di Singapore aveva superato l’80, i sudcoreani speravano nel presidente americano perché avevano fatto vincere Moon dopo che aveva promesso un’epoca di pace e prosperità attraverso il dialogo con i cugini del Nord. Ma nel riequilibrio trumpiano delle relazioni statunitensi con il mondo, c’è finita anche Seul.
In questo che è il primo incontro tra Moon e Trump dopo l’inconcludente vertice di Hanoi, il sudcoreano sostanzialmente cercherà di capire se esiste un “middle ground” tra Washington e Pyongyang, come ci spiega in forma discreta un analista americano che si occupa di Coree – la ministra degli Esteri sudcoreana, Kang Kyung-wha, accompagnatrice di Moon a Washington, incontrerà nei prossimi giorni alcuni legislatori e in forma più riservata i membri di un gruppo di studio sulla Corea scelto dal Congresso.
Il punto – continua – è che “l’offerta messa sul piatto da Kim in Vietnam non è ritenuta buona dagli Stati Uniti: il nordcoreano prometteva lo smantellamento del reattore di Yongbyon, ma in cambio voleva che le sanzioni fossero sollevate. Agli americani è sembrato troppo poco. Magari non per Trump, però: il presidente ha un approccio pragmatico alla questione, vuole incassare una forma di accordo che gli dia un qualche vittoria e sicurezza, per questo da buon negoziatore è disposto anche a qualche concessione al buio. Il punto è che gli advisor che ha intorno tendono a gestire la situazione con maggiore rigidità”.
L’effetto del buco nero in Vietnam è stato il ritorno a una retorica ostile da parte di Pyongyang, che ha anche cercato di usare leve per forzare queste diverse visioni intra-amministrazione sopra riportate. I media del regime hanno più volte sottolineato come il problema nei negoziati non sia Trump, ma i suoi consiglieri falchi, incarnati nei nomi di Mike Pompeo, segretario di Stato, e John Bolton, capo del Consiglio di sicurezza nazionale. Hanno creato un’atmosfera “ostile e di sfiducia”, hanno detto i megafoni del regime.
Nei giorni scorsi, alcuni B-52 sono tornati a Guam, hanno preso parte a voli di familiarizzazione col teatro di operazione, e sono stati uno di quei segnali laterali che spiegano, molto meglio delle dichiarazioni, che la situazione dei negoziati non sta procedendo alla grande. Dal Nord, Kim, impegnato nella plenaria del Politburo, ha mandato sollecitazioni ai comandanti militari per prepararsi contro “le forze straniere”, e secondo le osservazioni del Center for Strategic and International Studies – think tank che ultimamente ha dedicato molta attenzione alla situazione in Corea del Nord col progetto “Beyond Parallel” – il regime starebbe lavorando per organizzare una parata militare.
Secondo l’ultimo report del Csis, la parata sarebbe un modo per mostrare i muscoli che “potrebbe indicare il ri-posizionamento del regime verso la linea dura e la riluttanza a denuclearizzare” (che per gli Stati Uniti è l’obiettivo profondo dei negoziati). Però è anche piuttosto noto che il leader nordcoreano alcune volte ha la necessità di prendere certe posizioni per accontentare la porzione più conservatrice e massimalista del regime, che ha basato gran parte della propria esistenza moderna nell’anti-americanismo.
Moon cerca la sponda di Trump in qualche forma pubblica: dalla dichiarazione al tweet, l’unico modo per rivitalizzare la situazione è – come spesso accade – un’uscita diretta del presidente statunitense. Lee Do-hoon, l’inviato principale della Corea del Sud ai colloqui con Pyongyang, venerdì, durante un forum a Seul, ha provato a forzare la mano, drammatizzando la situazione come una “corsa contro il tempo” prima che finisca la spinta negoziale e si ritorni alla dialettica da guerra, con rischi connessi.
Il Sud potrebbe incontrare una necessità pratica per Trump, che ha ingaggiato il dossier nordcoreano da dealer, alzando la posta con le minacce iniziali per poi portare Kim al tavolo: è uno degli argomenti su cui il presidente ha investito capitale politico, che potrebbe voler monetizzare in vista della rielezione del 2020.
(Foto: Twitter, @TheBlueHouseENG)