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Il rapporto Balcani-Ue e perché l’Italia non era al vertice di Berlino. Parla Politi

Lo hanno definito uno “scambio di opinioni tra le parti” il vertice sui Balcani occidentali che si è tenuto a Berlino, su iniziativa del cancelliere tedesco Angela Merkel e del presidente francese Emmanuel Macron e con la partecipazione dei capi di Stato e di governo della regione. Ma tra assenza dell’Italia e perimetro dei nodi tutti legati ai capitoli aperti, ecco che la materia risulta complessa e articolata, come dice a Formiche.net Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation che ragiona analiticamente su Balcani, Ue e ruolo della Nato anche alla luce della presenza italiana in Kosovo.

Al vertice di Berlino Merkel e Macron hanno suggerito a sei paesi dei Balcani occidentali che aspirano all’adesione all’Ue che non c’è una prospettiva immediata di unirsi al blocco: che ne pensa?

In realtà non fanno che ripetere ciò che viene detto a livello mutilaterale, anche perché molto chiaramente hanno ribadito che la prospettiva di adesione non è affare loro. Esiste un meccanismo della Commissione europea con l’apertura e la chiusura di specifici capitoli per decidere se un Paese è pronto o meno. Il candidato deve dimostrare di assorbire l’acquis dell’Ue prima di poter entrare, un modus che vale anche per chi aspira ad entrare nella Nato. Parliamo di standard indispensabili, tanto è vero che in Bosnia una delle entità politiche, quella serba, sta facendo ostruzionismo bloccando un dossier tecnico perché non vuole che la Bosnia entri nella Nato.

Che significa?

Ciò dà la misura completa di quello che accade a livello multilaterale. In questo, Macron e Merkel ripetono posizioni già note su cui non hanno un controllo diretto pur essendo due players importanti di Ue e Nato. La questione insomma riguarda il rispetto di parametri ad hoc. In Kosovo adesso non si liberalizzano i visti perché non si dimostra la lotta alla corruzione su quaranta casi specifici scelti dalla Commissione.

Come uscirne?

La classe politica di quel paese deve sapere che deve dimostrare qualcosa su quel fronte, come ha effettivamente dimostrato su un altro aspetto, ovvero tramite l’accordo di demarcazione con il Montenegro dove prima una minoranza pelosa e insensata di rifiutava di farlo. E a quegli italiani che gridano all’allarme sull’arrivo dei kosovari, consiglierei di pensare che in assenza di quegli arrivi e quelle rimesse che mandano nel loro paese, il Kosovo collasserebbe ancora di più nelle mani del crimine organizzato cui dei passaporti non importa molto, perché li compra. Per cui mi auguro che si abbia un minimo di visione complessiva.

Le proteste di piazza dell’ultimo anno in Serbia, Albania, Montenegro e Kosovo hanno favorito una ulteriore instabilità?

Nonostante accada che quando vi siano disordini c’è sempre qualcuno che ci mette il dito, osservo che i problemi di quelle piazze sono largamente interni. Il rapporto tra maggioranza e opposizione in Albania è difficile: ancora non c’è quella capacità di saper governare e al tempo stesso trovare il modo di dialogare in maniera costruttiva. Ciò è comune a molti paesi dell’area ed è una questione che richiede tempi di maturazione politica. D’altronde la classe politica non si inventa, ma si costruisce con pazienza e preparazione prima di occupare qualunque seggio: vale anche per l’Italia, e lo dimostra la sua capacità di riprendersi nel secondo dopoguerra.

In questa criticità come si inserisce il lavoro della Nato?

Il lavoro della Kfor e delle sue rappresentanze in Serbia, Macedonia del nord e Bosnia, è paziente. Una sorta di gioco dell’oca che si fa a tre, come è noto alle istituzioni internazionali. La Nato non ha un ruolo politico, ma contribuisce insieme agli altri attori alla stabilizzazione dell’area. In occasione dei disordini nell’allora Fyrom, la Kfor schierò uomini ai confini meridionali del Kosovo. Non fu un caso, ma venne fatta una valutazione politica per lanciare un messaggio ad una serie di soggetti tra cui gruppi armati che avrebbero potuto filtrare attraverso la frontiera.

Troppo forti le tensioni religiose e nazionalistiche?

Dipende moltissimo da ciò che intendono fare i governi nazionali. Si parla tanto di Europa carolingia, certo suggestiva, ma risale alla notte dei tempi. L’Europa unita di oggi, al netto di difetti e riforme, si basa su una faglia selvaggia che prende il nome di guerra dei trent’anni tra protestanti e cattolici. Mi sembra che non sia un tema politico oggi, ma per due secoli lo è stato eccome. Se siamo riusciti a includere in ambito Ue e Nato nazioni come la Grecia ortodossa, la Turchia musulmana, penso che sia quello a far capire il ruolo non determinante dell’elemento religioso. Come non lo è nella guerra tra il Levante e il Golfo. E’ un’etichetta che viene agitata, mentre le realtà sono molto più corpose per via di interessi politici, di potere e di terre.

La soluzione al caso Macedonia è uno spartiacque definitivo?

Il passaggio dalla Fyrom al nome Macedonia del nord chiude una fase di manipolazioni nazionalistiche che non avevano altro scopo se non mantenere al potere una classe dirigente. Questo il senso del lungo decennio in cui tutto era bloccato attorno ad un nome: lo dimostra il fatto che il vecchio governo è stato spazzato via per propri limiti e dagli elettori. E ciò al netto di tutte le possibili ingerenze, in cui spiccano quelle russe.

Italia assente al vertice di Berlino: Roma si autoesclude dai processi decisionali?

Aquisgrana è stato un trattato delle buone intenzioni, ma la distanza tra francesi e tedeschi è ancora forte. Quando si tratta di toccare interessi nazionali c’è un modo diverso di interpretarli, dal punto di vista degli equilibri geopolitici globali: le intenzioni sono buone ma c’è poca sostanza politica. Il vertice di Berlino vuole dimostrare che Aquisgrana va avanti ma il frutto è stato una semplice discussione. Per cui il tema se l’Italia dovesse essere invitata o meno, non ha fondamento perché è il vertice che non ha avuto consistenza. Però ciò nulla toglie ad un serio esame di coscienza di quello che facciamo noi.

Ovvero?

La Francia ha zero soldati in Kosovo, ne sono conscio perché per un anno come consigliere capo dell’ufficio politico della Kfor ho insistito con l’ambasciatore francese perché almeno mandassero una rappresentanza simbolica. Non lo hanno fatto neanche oggi. I tedeschi, che avevano un contingente robusto, sono scesi a cento soldati. L’Italia invece è il secondo contingente più importante dopo gli Usa. I comandanti italiani di Kfor hanno una marcia in più rispetto agli altri perché vengono da un paese complesso: questo è fondamentale. Per cui la domanda concreta che dovremmo porci è come massimizzare il valore politico di ciò che stiamo facendo in modo egregio.

twitter@FDepalo

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