Le grandi opere, soprattutto se a lungo dimenticate, sono destinate a “tornare”. E quanto più la rimozione è stata feroce, tanto più la loro riapparizione suscita meraviglia. Una “vendetta” della quale gli autori non possono godere, ovviamente, ma le minoranze che hanno continuato ad amarle, nonostante il conformismo e l’ignoranza imperanti, vivono tali circostanze come segni di rinascita culturale quale che sia in seguito l’esito che avranno.
Uno degli autori sui quali la damnatio memoriae si è maggiormente accanita in questo lungo dopoguerra è Alfredo Oriani (Faenza, 22 agosto 1852 – Casola Valsenio, 18 ottobre 1909) la cui opera più significativa, “La rivolta ideale”, negli ultimi anni molto citata, e per ben due volte ripubblicata, con un andamento “carsico” ha attraversato il Novecento, influenzando le personalità della politica e della cultura più diverse. Adesso rivede la luce per Oaks editrice (pp.285, € 22) preceduta da una suggestiva prefazione di Renato Besana, il quale, senza preamboli, fornendo un ritratto sintetico dell’autore, scrive che Oriani “immaginava uno Stato che fosse supremo regolatore dell’attività sociale; alle libertà individuali anteponeva il principio d’autorità e la morale cristiana. Nutrito d’antiche memorie e nuove speranze, credette con intatto fervore risorgimentale nei destini d’Italia”.
Da Mussolini a Spadolini, da Gramsci a Gentile, da Missiroli a Gobetti, da Papini a Serra, da Prezzolini a Croce, da padre Gemelli a Berto Ricci, uno scrittore di tal fatta non ha lasciato indifferente nessuno tra coloro che hanno cercato di penetrare a fondo il “carattere italiano” quale emerge dalle pagine di un libro che è una lunga meditazione sull’ideale, principio generatore di azioni umane commendevoli e volte alla costruzione della coesione comunitaria. Oggi, in tempi così lontani da quelli in cui uomini di pensiero e d’azione lo ebbero tra le mani, dopo gli esiti della Grande Guerra, lo leggiamo con lo stesso spirito avvertendo confusione e smarrimento sia pure in circostanze completamente diverse? E cerchiamo anche noi un ideale, individuale o collettivo poco importa, che sia in grado di farci resistere alla crisi spirituale e culturale dell’Europa non diversamente da quanto si sentiva nei primi due decenni del secolo scorso? Se le risposte dovessero essere positive, il “testamento” di Oriani, per quanto eccentrico rispetto alla nostra epoca, fa per noi. E già questo ci convince che l’opera in questione è davvero un “classico” divenuto tale da quando le nubi cominciarono ad addensarsi sui destini del Vecchio continente.
Nel 1908, un anno prima della morte, Oriani pubblicò “La rivolta ideale” senza farsi eccessive illusioni. Come non se n’era fatte quindici anni prima quando diede alle stampe l’imponente “Lotta politica in Italia”. Entrambe le opere caddero nel vuoto. Come tutti i profeti inascoltati ebbe ragione soltanto “dopo”. E per quanto numerosi intellettuali si protesero incuriositi sul “solitario del Cardello”, furono soprattutto i nazionalisti (Luigi Federzoni in particolare) a “riproporlo”. L’opera omnia di Oriani, in trenta volumi, venne pubblicata nel ventennio. Dopo si disse, com’era naturale, che lo scrittore faentino cadde nel dimenticatoio proprio per la sua “fascistizzazione” che non impressionò un serio studioso come Giovanni Spadolini o prima di lui Benedetto Croce.
Oriani appartiene a tutti, al di là delle passioni passate e di quelle (se ve ne sono) presenti. Resta il suo pensiero ed il complesso di un’opera con cui confrontarsi sia nel giudicare la decadenza che vedeva procedere a rapidi passi fin dai tempi di Dogali, sia nel considerare (o ri-considerare) lo Stato-nazione che giudicava pericolante ed oggi ne contempliamo le macerie.
La rivolta ideale venne scritta in cento giorni e, a giudizio del suo autore, era il suo “libro migliore”. Un libro che tuttavia, come Oriani stesso presagiva, sarebbe cascato “nel solito pozzo del silenzio”. E così avvenne. Soltanto dopo alcuni anni si accese l’interesse attorno al volume ed al suo autore. L’editore Laterza, infatti, su consiglio di Croce, prese a ristampare numerose opere di Oriani e, per la loro “viva ricchezza spirituale”, le indicò come il frutto di “un artista oggettivatore di drammi d’anime”. A giudizio di Benito Mussolini, poi, il quale già nel 1909 – fra i pochissimi estimatori – l’aveva giudicata “magnifica”, l’opera ultima di Oriani rispecchiava, “in uno stile conciso, tacitiano che basterebbe da solo a costituire la gloria di uno scrittore”, tutti i problemi, le passioni, le angosce e le speranze “del nostro tempo”. Infatti l’opera di Oriani rivela una sorprendente attualità quando i tempi diventano più difficili. Sicché coloro che sono più sensibili alle convulsioni della storia riconoscono nella definizione che dà il senso al volume la via verso l’impegno e possibilmente il riscatto: “L’ideale solo è vero”. E con questo conciso aforisma, Oriani intende stigmatizzare il “tradimento” della nazione venuta fuori dal Risorgimento da parte delle inadeguate classi dirigenti mallevadrici del malcostume che stava già consumando la “giovane” Italia. Dunque, il tempo degli slanci generosi, l’impegno coraggioso e perfino eroico, del disinteressato perseguire una morale legata ai più degni costumi nazionali, non può aspettare. C’è bisogno di nuove aristocrazie che aprano la strada ostruita dalle miserie che la “lotta politica” post-risorgimentale ha contribuito ad innalzare tra lo Stato e il popolo. Non a caso i, nucleo ispiratore della Rivolta ideale è nel legame, individuato da Oriani, tra la questione nazionale e la questione sociale. Sarebbe stato il motivo conduttore della riflessione culturale e politica dei decenni che si sarebbero succeduti.
Al riguardo Besana osserva: “Nella soluzione dell’una, risiedeva per Oriani la soluzione dell’altra. Gli interventisti, alla vigilia del primo conflitto mondiale, giungeranno a identiche conclusioni; diverso sarà il mezzo, non il fine. Bisogno di grandezza e bisogno di cambiamento insieme fusi in un unico crogiolo: la guerra”. Che, non dimentichiamolo, era – e non poteva essere diversamente – guerra di popolo, guerra rivoluzionaria, per riconsacrare la nazione con il sangue di coloro che dal processo unitario erano stati esclusi.
Dopo aver passato in rassegna le problematiche spirituali connesse alle ricadute esistenziali e politiche della “modernità”, Oriani si congeda con struggenti parole contenute “nell’Appello” che è un pressante invito a reagire al declino.
Eccole le parole: “Adesso che la mia giornata s’interrompe nei crepuscoli della sera, guardo ancora alle cime pensando che sarebbe stato meglio il non discenderne mai, per quanto esse non siano più vicine delle pianure al cielo. Nell’ideale soltanto, sia pure una larva dentro un miraggio, è la bellezza della vita: se qualche cosa può somigliare alla verità, che non sappiamo, è la virtù che dà invece di ricevere e muta i sogni del dolore in opere di pensiero”. Per poi concludere: “La storia universale sta per accordare nel proprio ritmo tutti i popoli: non vi sono più stranieri, domani non vi saranno più barbari. Nella vita, alla quale tutti parteciperanno, il calore fonderà gli egoismi più duri, è l’alito, battendo sulle faci più alte, darà loro una luce di astro. Accendete dunque tutte le fiaccole, perché la marcia è già cominciata nella notte, e non temete del fumo: l’alba è vicina. Il suo rossore assomiglierà forse a quello del sangue, ma è sorriso di porpora, che balena dal dal manto del sole”.
Era il 21 settembre 1906 quando Oriani scriveva queste ultime righe a suggello della sua Rivolta ideale. Non immaginava che quel suo ultimo libro sarebbe diventato, dopo la sua morte, un breviario per tutti coloro, in ogni epoca, che avrebbero opposto la volontà all’avanzare della decadenza, lo spirito alla caduca materialità, la morale aristocratica alle miserie dell’opportunismo utilitaristico. Nietzscheanamente, un “libro per tutti e per nessuno”, insomma.