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Se Salvini si espone troppo alla Russia. Il commento di Bozzo (UniFi)

Secondo un documento ottenuto dal Dossier Center – organizzazione guidata dal dissidente russo Mikhail Khodorkovskij, l’ex oligarca della Yukos ora rifugiato a Londra in rotta col Cremlino putiniano – e condiviso con Repubblica, Bbc, Zdf e Der Spiegel, esisterebbe una rete di supporto politico nei paesi dell’Unione Europea, Italia inclusa, studiata da Mosca per diffondere la propria influenza e destabilizzare il sistema occidentale partendo da Bruxelles.

Nei giorni scorsi, una segnalazione del tutto analoga era stata fatta dal consiglio di Sicurezza nazionale americano, che denunciava – all’Ansa, e dunque il riferimento diretto era il governo di Roma – “che la Russia sta creando incursioni nel paesaggio politico italiano e incoraggiamo fortemente Roma a prendere seriamente queste attività”. In quelle stesse ore, Matteo Salvini, vicepremier e leader della Lega, si vedeva a Parigi con Marine Le Pen, presidente del partito di ultra-destra Rassemblement National (l’incontro ha suscitato le preoccupazioni del M5S, alleato di governo della Lega, che oggi replica: si pensi a lavorare!). Sia il partito italiano che quello francese – che stanno lavorando insieme per costruire un’alleanza politica verso le Europee – hanno un accordo di cooperazione con Russia Unita, la componente politica creata e capitanata da Vladimir Putin.

Ne abbiamo parlato con  Luciano Bozzo, presidente del corso di Laurea magistrale in Relazioni internazionali e Studi Europei all’Università di Firenze.

La frequentazione di certe figure come Marine Le Pen non può essere considerato un limite della visione geopolitica di Salvini, che vuole accreditarsi sullo scacchiere strategico internazionale e che poi frequenta ambienti filo-russi, per altro in contatti discutibili riguardo a finanziamenti diretti? Non c’è ambiguità?

L’accusa di ambiguità che, a torto o ragione, può essere mossa alla politica estera italiana odierna potrebbe essere rivolta anche, e qualcuno potrebbe rimarcare persino a maggior ragione, alle politiche estere di Francia o Germania. Entrambi quei Paesi, che come il nostro fanno parte delle stesse grandi organizzazioni internazionali economiche e di sicurezza, flirtano infatti con grandi potenze, quali la Federazione Russa o la Cina, che in ottica economica e geostrategica sono considerati concorrenti e avversari.

Il comportamento italiano deve suscitare maggiori preoccupazioni, interne ed esterne, rispetto a quello di altri partner e alleati?

Per rispondere alla domanda occorre partire da una considerazione oggettiva di quelle che sono, da un lato, le dimensioni dei Paesi considerati e, dall’altro, la loro reputazione internazionale. Due fattori che concorrono a determinare il margine di libertà d’azione di qualsiasi attore che si muova sulla scena internazionale. Rispetto al primo, l’Italia da quando esiste come Stato unitario, ha sempre e con difficoltà dovuto commisurare le proprie ambizioni di politica estera, spesso eccessive, con i mezzi a disposizione e i limiti strutturali. Il voler perseguire obbiettivi troppo ambiziosi, rispetto ai fattori di potenza reali del Paese, si è a volte tradotto in disastri; più spesso nella politica della sedia, per cui è più importante il rango (formale) che il ruolo (sostanziale) che il Paese è in grado di giocare. Importante è dunque esserci, partecipare al consesso di turno, adottare più o meno roboanti iniziative di facciata, anziché mirare all’effettivo conseguimento di obbiettivi realistici, che siano parte di una vera grande strategia nazionale di lungo periodo.

“Grande strategia”, appunto: come può bilanciarsi la linea, diciamo così, atlantista che il sottosegretario e braccio destro del vicepremier Giancarlo Giorgetti ha cercato di portare avanti nell’ultima visita a Washington con certi scivoloni filorussi salviniani?

Nella cultura di politica estera e di sicurezza italiana spesso si dà, ed è stata data, più importanza all’apparenza che alla sostanza, dunque. E poiché spesso in passato il nostro bluff è stato visto, ne è seguita una bassa reputazione internazionale. Qui sta la vera differenza rispetto a certi nostri alleati e partner. Per la sua posizione nel sistema internazionale e la sua collocazione geopolitica, l’Italia, quanto e più di altri attori, è inevitabilmente costretta a giocare su diversi tavoli. Lo ha sempre fatto, anche quando il sistema era diviso da una profonda faglia ideologica, nei decenni della guerra fredda. Farlo, se serve alla difesa dell’interesse nazionale, è corretto e dovuto: non è questo il punto. Tutti gli Stati lo fanno o cercano di farlo.

E allora, dove sta il problema?

Il problema nasce se e quando, da un lato, si adottano iniziative dalle forti ricadute politiche e mediatiche, ma dagli scarsi contenuti sostanziali o che comunque richiederebbero di essere tradotte negli anni in serie (e necessariamente poco visibili) politiche di implementazione e sviluppo. Mentre dall’altro lato i nostri partner magari mantengono un accorto profilo politico, ma concludono contratti per decine di miliardi di euro con i comuni competitors.

L’Italia paga su dossier di politica estera – per esempio in Libia? – il contraccolpo di certe incongruenze?

Questo genere di comportamento, a prescindere dai vantaggi materiali ricavati o sperati, rafforza la reputazione di scarsa affidabilità di cui il Paese continua a pagare il prezzo e giustifica le preoccupazioni, prima ancora interne che esterne.

 

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