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Cosa pensano i cinesi degli Stati Uniti. Il sondaggio Pew

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Spesso quanto più i governi sono autoritari tanto più sono deboli poiché devono tenere conto del consenso dell’opinione pubblica su cui fondare il loro potere. Ciò avviene anche nella Repubblica Popolare Cinese. A Pechino ci si preoccupa di quello che pensa “la ggeente” – come diceva Tina Pica – o “l’uomo della strada” – come si usa anche dire.

IL SONDAGGIO SUI CINESI E GLI USA FATTO DA PEW RESEARCH CENTER

Può parere strano ma Pechino si è rivolta al Pew Research Center (Centro di ricerca Pew), un istituto con sede a Washington che fornisce informazioni su problemi sociali, opinione pubblica, andamenti demografici e via discorrendo. Conduce sondaggi tra l’opinione pubblica, ricerche demografiche, analisi sul contenuto dei media, e altri studi nel campo delle scienze sociali empiriche. Non prende esplicitamente posizioni politiche. È probabilmente il più noto e più considerato e qualificato istituto del genere al mondo. Naturalmente, la qualità conta se si vuole un sondaggio affidabile. Lo sanno anche nella Città Proibita.

Attenzione, non è un’analisi che riguarda l’intero Paese e che tiene conto degli ultimi sviluppi. È stata condotta, e pubblicata, circa due anni e mezzo fa, prima che la guerra, o guerriglia, commerciale esplodesse. E concerne unicamente le grandi città ed i ceti medio-alti, quelli che hanno maggiore contezza delle tematiche internazionali, che leggono i giornali, seguono la televisione, e frequentano gli Starbucks e i McDonalds dove ama andare “la Cina che può”.

COSA DICE L’INDAGINE SUI CINESI

I risultati sono interessanti. Il 45% degli intervistati teme che la potenza e l’influenza americana siano “una minaccia” allo sviluppo del loro Paese, con un aumento di sei punti percentuali rispetto all’indagine precedente condotta nel 2013. Oltre la metà ritiene che uno degli obiettivi principali degli Usa è quello di impedire alla Cina di diventare tanto potente quanto gli Stati Uniti. Amy Quin, un esperto cinese di Scienze sociali specializzato in discipline della comunicazione, ha dichiarato che questa tendenza ha probabilmente subito un’accelerazione negli ultimi due anni, a ragione delle tensioni tra i due Paesi. I cinesi, tuttavia, non hanno paura della supremazia americana. Due sono le risposte frequenti: noi abbiamo i soldi e deteniamo parte importante del loro debito pubblico e possiamo perdere qualcosa nel breve termine ma, se non combattiamo, avremo danni maggiori nel lungo termine.

Amy Quin ricorda che l’ideogramma scelto per Stati Uniti d’America vuole anche dire “Paese bello”. Ciò indica sentimenti ambivalenti: da un lato, ammirazione e simpatia, e dall’altro rivalità. Le classi colte della Cina hanno ancora vivo il ricordo dell’umiliazione della “guerra dell’oppio”, i due conflitti dell’Ottocento in cui le potenze europee e gli americani costrinsero Pechino ad aprire i porti e si spartirono il Paese in sfere d’influenza. Non manca una dose di revanscismo.

Guardando al futuro, è interessante un saggio di David Jacks (Simon Fraser University, in California) e di Dennis Novy (Warwick University, in Gran Bretagna) , in cui si traccia un parallelo tra le guerre commerciali negli anni Trenta del secolo scorso e le vicende di questi ultimi tempi. La conclusione del lavoro (NBER Working Paper No. W25830) è che il mondo si sta dividendo in due grandi blocchi commerciali, uno incentrato sugli Stati Uniti ed uno sulla Cina. Ciò può avere implicazioni inquietanti per le regole di fondo della “non discriminazione” e della “reciprocità” su cui si è retto il commercio internazionale negli ultimi settanta anni e che sono il cardine dell’Organizzazione mondiale del Commercio.

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