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C’è del metodo nell’imprevedibilità di Trump sui dazi

cinesi, cina

La guerra dei dazi Usa-Cina ha mandato le Borse a tappeto quando il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato, dopo due mesi di intensi negoziati, l’intenzione di porre una barriera di tariffe doganali sulle merci di Pechino, al fine di restringerne la quantità ed il valore delle importazioni negli Usa. La minaccia è giunta, come usa fare il Presidente americano, all’improvviso e tramite un modo di comunicazione poco diplomatico come è un tweet. I dettagli sono stati per almeno un giorno su tutti i principali quotidiani; quindi, sarebbe ripetitivo soffermarsi su di essi, anche perché – come avvenuto spesso in passato – potrebbero cambiare.

IL METODO TRUMP E LA POLITICA INTERNAZIONALE CINA/USA

Gran parte dei commentatori hanno posto l’accento sull’imprevedibilità della mossa di Trump, giudicata da alcuni come un gesto inconsulto o quasi. Occorre riflettere. Non dovrebbero essere i tweet a sorprendere dato che, al pari dei post sui social, sono entrati nell’uso comune della comunicazione politica anche in Europa, specialmente se un politico si rivolge ad elettorato populista e/o giovane. Deve sorprendere che la minaccia non fosse attesa? A mio avviso, come dice Polonio nel secondo atto di Amleto, “C’è un metodo nella sua follia”.

In primo luogo, anche se non lo dicono, la Casa Bianca di Donald Trump e la Città Proibita di Xi Jinping hanno, in materia di politica commerciale internazionale, obiettivi analoghi più che simili: tornare al bilateralismo, scardinando quel metodo multilaterale (basato sulla non discriminazione e la reciprocità) che per circa 75 ha retto le regole del commercio internazionale, e soprattutto dei negoziati commerciali. Sono convinti (a mio parere, a torto) che con il bilateralismo le loro nazioni possono ottenere risultati migliori. Sono analoghi anche nella loro visione mercantilista degli scambi, basata su massimizzare l’export e minimizzare l’import. Altro errore, specialmente perché ciò comporta un aumento dei costi di produzione.

In secondo luogo, c’è poca fiducia reciproca, elemento essenziale per una trattativa. La mancanza di fiducia da parte di Washington nei confronti di Pechino ha più di una giustificazione. Quando nell’ormai lontano 2001, la Cina venne ammessa all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) ottenne le condizioni speciali che si danno a un Paese in via di sviluppo e sottoscrisse che sarebbe diventata un’economia di mercato. Da un lato, c’è da dubitare che in materia di export-import, Pechino possa essere considerata oggi come un Paese africano e usufruire delle deroghe che vengono date ai Paesi sub-sahariani. Da un altro, c’è da dubitare che la Cina abbia fatto passi concreti verso la propria trasformazione in economia di mercato. Da un altro ancora, è l’unico Stato al mondo che per autorizzare investimenti dall’estero richiede che gli operatori svelino i propri metodi di processo e di prodotto.

UNA GUERRA COMMERCIALE È LONTANA

Formiche.net aveva avvisato da tempo – ossia dal 17 aprile – che le trattative si erano impantanate sul tema dell’enforcement, ossia delle misure ‘automatiche’ da inserire nell’accordo in caso di mancato rispetto degli impegni. La soluzione chiaramente non si è trovata. Il capo nei negoziatori cinesi è rientrato a Pechino. E Trump ha sparato, con metodo, un tweet. Non è detto, però, che scoppi una guerra commerciale. Di fronte alla minaccia, Pechino – piena di difficili problemi interni – potrebbe fare concessioni all’ultim’ora. Come in passato.

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