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Senza infrastrutture l’Europa è fuori dalla competizione globale

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Per rendere più competitiva a livello globale l’Europa, gli investimenti in infrastrutture fisiche e digitali devono essere raddoppiati. Secondo il rapporto 2018 della Bei gli investimenti sono oggi pari al 2,7% del Pil, ma dovrebbero essere almeno del 5% per garantire all’Europa di competere con i grandi players globali.

Dall’inizio della crisi del 2008 in Italia (che investiva in media il 3,4% del Pil in infrastrutture), addirittura gli investimenti pubblici sono diminuiti di oltre un terzo, mentre quelli per le infrastrutture, che nel 2009 raggiungevano quota 29 miliardi, nel 2017 ammontavano a soli 16 miliardi. Disinvestire nell’ultimo decennio nelle infrastrutture è costato ogni anno al nostro Paese almeno un punto di Pil. L’Italia per investimenti sulle infrastrutture è terzultima in Europa con 1,8%. Solo Irlanda e Portogallo fanno peggio. Se la media europea è del 2,7%, in alcuni Paesi nordici e baltici e sorprendentemente anche in Grecia invece si supera il 4%. Al primo posto c’è l’Estonia con il 5,6% degli investimenti, concentrate in prevalenza nelle infrastrutture digitali, primato che hanno trasformato questo Paese nella prima Smart Nation europea.

La programmazione di un grande piano infrastrutturale rappresenta una delle quattro misure di policy per avviare un processo di crescita dell’Europa, ed investire sullo sviluppo delle reti di trasporto, telecomunicazioni, energetiche e sulla logistica, partendo dal miglioramento dei collegamenti ferroviari, di porti ed aeroporti, trasformando le infrastrutture da piattaforme fisiche ad ecosistemi di servizio, come accade in Europa a Rotterdam con il porto, a Zurigo con l’aeroporto o a Madrid con la stazione ferroviaria di Chamartin, ma anche in Italia con i sistemi innovativi digitali utilizzati e sperimentati nel porto di Bari.

Se la sfida che attende l’Italia è soprattutto culturale, come dimostra il dibattito di questi anni, intriso di ambientalismo di facciata e ideologia della decrescita, sostenuta soprattutto dal Movimento Cinque Stelle che invoca il rispetto dell’ambiente a corrente alternata (si professano green, sono a favore delle rinnovabili, affermano che le fonti fossili vanno ridotte, bloccano per 18 mesi le autorizzazioni a trivellare in Adriatico, e poi sostengono un’analisi costi benefici sulla Tav che ribadisce la prevalenza della gomma e quindi degli idrocarburi, per non rinunciare a 1,6 miliardi di accise sulla benzina), l’Europa del futuro non può fare a meno delle infrastrutture.

Il Piano Junker, che avrebbe dovuto mettere in esercizio 350 miliardi di euro di investimenti, ha prodotto risultati insufficienti e per affrontare la concorrenza di Usa e Cina l’Europa non ha alcuna scelta: investire sulle infrastrutture. La connessione continua e velocissima 5G faciliterà la produzione di Big Data, dai quali l’Europa auspica si percepiscano segnali di cambiamento nelle esigenze di mobilità e nelle aspirazioni individuali, nei comportamenti, negli stili di vita, nella modifica della percezione del costo e del tempo di viaggio, dai quali possano derivare insights per nuovi servizi ai viaggiatori connessi alla mobilità (piattaforma) o attinenti ad altra tipologia di valore (ecosistema).

Del resto è proprio grazie alle infrastrutture che l’Europa fin dal XV secolo ha costruito il proprio dominio sul sistema globale; quelle stesse infrastrutture che oggi sono fondamentali per unire e connetterle le grandi città europee e trasformarle in un unico agglomerato che possa competere con le megalopoli del mondo.

Nel prossimo decennio gli investimenti in infrastrutture conosceranno nel mondo un dinamismo senza precedenti, sostenuto soprattutto dalla Cina. Sarà dunque fondamentale anche in Europa ricominciare a investire, perché la competitività del mondo globale passerà sempre di più dalla capacità sviluppare le infrastrutture fisiche/digitali, velocizzando anche i processi amministrativi delle agevolazioni fiscali, dello snellimento dell’iter autorizzativo e della individuazione di partner economici qualificati. Le Zone Economiche Speciali a fiscalità agevolata, ad esempio, hanno garantito in Europa il rilancio dell’Irlanda e la crescita della Polonia, il cui Pil da un decennio è più del doppio della media Ue.

C’è bisogno, pertanto, che anche nel resto dell’Europa venga stimolato un percorso strutturato per avviare la costruzione di un ecosistema positivo e dinamico di relazioni ed interconnessioni. Bisogna iniziare a pensare a rete anche attraverso un nuovo piano di sviluppo delle grandi opere infrastrutturali con il relativo contributo degli eventuali concessionari. Anche perché l’unico motivo sostenibile per la concessione di monopoli ai privati è nel miglioramento continuo delle reti.

Senza poi dimenticare che le problematiche legate alla digital trasformation stanno impattando assetti sociali, demografici, economici ed istituzionali a livello globale. E’ la sfida culturale verso il punto di equilibrio della pianificazione urbanistica intelligente che utilizzi in maniera sostenibile le risorse naturali, e “consumi il suolo” solo per valorizzare il capitale umano di chi vive ed opera nelle nuove comunità digitali.

Un anno fa, insieme con il presidente di Confassociazioni Angelo Deiana, abbiamo chiesto al governo italiano di istituire un ministero ad hoc per la digitalizzazione. Attraverso questo dicastero, al quale sarebbero stati attribuiti tutti i poteri per gestire e coordinare le risorse previste nel Piano Agenda digitale, avevamo l’ambizione di trasformare l’Italia in una Gigabit society entro il 2025. Dopo il 26 maggio tocca all’Europa decidere che posizione occupare nella nuova Guerra Fredda, costruita intorno al possesso e all’analisi predittiva dei dati.

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