LA DATA NON È CASUALE
Oggi, al ministero degli Esteri di Teheran, gli ambasciatori di Francia, Regno Unito, Russia, Cina e Germania riceveranno un briefing da parte del viceministro su come l’Iran intende procedere al ritiro parziale dall’accordo sul nucleare. Ai funzionari diplomatici dei paesi che firmarono l’intesa nel 2015 (i membri del sistema multilaterale “5+1”) verranno comunicati i dettagli di un’operazione di cui si parla da un po’ di tempo e che va vista anche come una rappresaglia contro le mosse aggressive degli Stati Uniti e uno stimolo all’inconsistenza dimostrata dalle altre controparti nel muoversi in modo indipendente.
Una spiegazione più formale e meno tecnica delle intenzioni iraniane era contenuta in una lettera che il presidente Hassan Rouhani ha inviato ieri ai leader di quei cinque paesi; Rouhani ha anche parlato in televisione, annunciando la decisione ai cittadini iraniani. La data scelta non è casuale: esattamente un anno fa il presidente americano, Donald Trump, annunciò il ritiro totale degli Stati Uniti dall’accordo – che invece sotto l’amministrazione Obama aveva non solo negoziato, ma spinto come nessun altro.
Sostanzialmente, l’Iran dovrebbe interrompere la dismissione, imposta dal deal precedente, dell’uranio arricchito e dell’acqua pesante di cui è già in possesso, ma ha anche forzato una sorta di ultimatum: se entro 60 giorni non verranno varate misure per mantenere in piedi l’accordo nonostante la ri-applicazione dell’intera panoplia sanzionatoria americana, ricomincerà l’arricchimento di nuovo uranio (anche questo stoppato dal congelamento sul programma nucleare dettato dall’accordo del 2015).
Tutto questo, secondo Teheran, non fa decadere il Nuke Deal (nome giornalistico di quello che tecnicamente è noto come Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa). Ieri, durante la sua visita in Russia, il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, ha specificato che quelli a cui l’Iran rinuncerà “per ora” sono impegni che sono stati presi volontariamente dalla Repubblica islamica (sottolineature utile per confermare la buona fede con cui Teheran ha approcciato la situazione), ma la mossa si rende necessaria perché “gli europei dimostrano di non essere in grado di resistere alle pressioni statunitensi”.
LA LETTERA ALLA MOGHERINI
Zarif, che ha inviato una lettera di spiegazioni all’Alto commissario per la Politica estera e di Sicurezza dell’Ue Federica Mogherini, ha lanciato una frecciata a Bruxelles i cui rapporti con Washington sono stati messi particolarmente in crisi dal ritiro americano dal Jcpoa. L’Europa, che all’opposto di Trump, lavora per mantenere in piedi l’accordo, ha cercato senza grossi risultati di creare un meccanismo di tutela per impedire alle proprie imprese di ricadere in sanzioni secondarie americane collegabili al business con l’Iran. Un modo per poter mantenere in piedi gli scambi che però è sostanzialmente inefficace a causa del blocco finanziario imposto dagli americani al sistema bancario iraniano (a cui sono impedite le transizioni in dollari, che è la moneta di riferimento per il mercato petrolifero, principale asset economico di Teheran, e commercio su cui gravano molte sanzioni Usa).
Ieri, il segretario di Stato statunitense Mike Pompeo ha fatto saltare all’ultimo minuto una visita ufficiale in Germania (dove avrebbe dovuto incontrare la Merkel) per riapparire – inaspettatamente – a Baghdad. Pompeo ha spiegato che il viaggio era collegato agli sviluppi del dossier iraniano, che è uno dei principali crucci di sicurezza per gli Stati Uniti. La deviazione del capo della diplomazia americana da una visita programmata – uscendo dal contesto protocollare di certe circostanze, e spiazzando Berlino – unito il blitz per “questioni urgenti” in Iraq, paese che vive le penetrazioni espansionistiche iraniane nella regione mediorientale, è un fatto simbolico.
Pompeo, seduto a fianco al primo ministro, Adil Abdul-Mahdi, ha parlato di “informazioni che indicano che l’Iran sta intensificando la propria attività” e ha detto che era a Baghdad “per assicurargli che eravamo pronti a continuare a garantire che l’Iraq fosse una nazione indipendente e sovrana”. C’è una doppia retorica: l’ultima, la sovranità, serve per sottolineare quell’aspetto legato alle penetrazioni iraniane nella regione, una trama di influenze giocate attraverso partiti/milizia che l’Iran finanzia e fomenta per crearsi spazi in Medio Oriente, in paesi come Siria, Iraq, Libano, e anche Yemen, che gli americani vogliono disarticolare (vedere il caso recente contro i libanesi di Hezbollah).
Gruppi che sono particolarmente legati al mondo dei Guardiani della Rivoluzione, fomentati con politiche ideologiche e lusingati con interessi economici: anche per queste attività, i Guardiani sono stati recentemente inseriti dagli Stati Uniti nelle liste delle organizzazioni terroristiche. Mossa simbolica più che di sostanza che ha contribuito ad aumentare le tensioni.
IL RUOLO DI ISRAELE
Washington, di concerto con i propri alleati regionali (Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi), ha avviato un confronto contro l’Iran volto alla massima pressione. Nel quale rientrano anche movimenti militari. Quando Pompeo parla delle informazioni sull’intensificarsi delle attività iraniane, si riferisce a indicazioni che, secondo uno scoop dell’attentissimo sito di politica americana Axios, sarebbero state passate da un team israeliano a Washington.
La delegazione, guidata dal capo del Consiglio di sicurezza nazionale, Meir Ben Shabbat, avrebbe incontrato alla Casa Bianca il gruppo di lavoro del collega americano John Bolton, uno dei falchi della politica anti-iraniana nell’amministrazione Trump. Shabbat avrebbe passato informazioni di intelligence raccolte dal Mossad a proposito di possibili ritorsioni nel Golfo contro gli Stati Uniti e alleati statunitensi locali.
Lo scambio di informazioni di intelligence – che è uno degli elementi che ha allineato, in chiave anti-Teheran, i regni sunniti del Golfo con lo stato ebraico, il tutto catalizzato dagli americani – non è stato dettagliato, ma dev’essere stato qualcosa che gli Stati Uniti hanno considerato sufficiente per: far saltare all’ultimo minuto una visita programmata del segretario di Stato, deviare la rotta operativa di una portaerei nucleare con tutto il suo gruppo da battaglia (la “USS Lincoln”, che era nel Mediterraneo, dove avrebbe dovuto far sosta in Croazia, e invece è stata fatta scendere verso il Golfo) e spostare quattro bombardieri strategici B-52 verso l’hub del CentCom in Qatar.
Azioni di deterrenza che pressano Teheran con l’obiettivo anche di far fare un passo falso al regime, soprattutto agli esponenti più reazionari. Costruire un espediente per ricreare contro l’Iran uno stato di isolamento completo. Washington, oltre che per vicinanza agli alleati mediorientali (che in questo momento sono considerati i migliori amici dall’amministrazione Trump), vuole contrastare le mire egemoniche che Teheran intende esercitare nella regione, perché l’egemonia è combattuta a Washington, soprattutto se non lascia spazio agli interessi americani: “Mi pare che Trump aneli una grande pace, o una grande guerra”, commenta discretamente una fonte diplomatica.