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Trump non vuole la guerra, l’Iran lo sa e alza il tiro

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DA DAMASCO A TEHERAN

Dopo anni nei quali l’attenzione di tutti i libanesi è stata centrata sulla Siria, la sua terribile guerra e la sua capacità di coinvolgere tutta la regione, molte attenzioni oggi riguardano un’altra guerra che in tanti temono perché dai confini e limiti imprevedibili, quella tra Iran e Stati Uniti. L’assunto generale è che gli Stati Uniti non vogliano un conflitto, nessuno nella Washington di Donald Trump è ansioso di conseguire un altro Iraq, a un nuovo Afghanistan dalle implicazioni incalcolabili. Il presidente degli Stati Uniti lo ha messo in chiaro da subito, ma, soprattutto alla vigilia dell’anno elettorale, più che un’indicazione politica questa diventa una priorità.

Ma le intenzioni americane devono essere osservate insieme a quelle iraniane e molti a Beirut ritengono che questo sia meno considerato, capito. Tra quanti hanno assidua attenzione per gli sviluppi iraniani ci sono certamente l’ex generale Khalil Helou, oggi presidente dell’associazione per il dialogo e l’incontro “Il Libano, un messaggio” e il professor Samir Nader, docente alla Saint Joseph University e direttore del Levant Institute for Strategic Affaires. “Spero che a Teheran abbiano ben capito con chi oggi hanno a che fare”, avvisa il generale che si occupa di dialogo e incontro tra credenti, in particolari cristiani e musulmani. Impossibile non parlarne con entrambi a partire da alcune notizie diffuse nel corso di una conferenza a porte chiuse da un accademico americano di origini iraniane.

LA LINEA AMERICANA

A Teheran, è stato detto in quella circostanza, sarebbero ormai convinti che Trump sarà rieletto e che quindi la linea americana non cambierà nel prossimo quinquennio. “Trump – spiega Helou- è sostanzialmente interessato a un bilanciamento tra le forze regionali, ma vede oggi uno squilibrio regionale a favore dell’Iran, di qui la sua scelte per le sanzioni. E le sanzioni sono efficaci, colpiscono in un modo evidente e fortissimo l’economia iraniana e anche gli alleati dell’Iran ne risentono”.

I dati dunque sono preoccupanti per i mullah. Stabilità post-elettorale per l’amministrazione Trump, efficacia delle sanzioni che neanche gli europei osano sfidare. Futuro dunque da incubo. Di qui sarebbe nata la determinazione di verificare la tenuta “sociale” del regime dei mullah: l’accademico statunitense di origini iraniane che ha visitato Beirut in questi giorni, fermandosi anche alla cattolica Saint Joseph University, avrebbe rivelato di un sondaggio, effettuato su un campione di 300mila iraniani, ai quali sarebbe stata posta una sola domanda: “Chi è oggi il politico più importante nel Paese?” Il risultato indicato indicherebbe nel generale Qassem Suleiman, il potente capo dei pasdaran e del battaglione al-Quds, quello che opera in Siria e che a lungo è stato impegnato in tanti altri scenari mediorientali dove espandere la rivoluzione khomeinista, il più indicato dal campione. Il presidente Rohani invece sarebbe finito in posizioni non proprio ragguardevoli.

QUELLO CHE TRUMP NON VUOLE

Questa indicazione può avere due letture: gli interpellati vedono la forza del generale, la seconda lettura invece vede il consenso con la sua linea, con ciò che lui rappresenta e indica. Se così fosse, i mullah potrebbero ritenere che l’attacco dell’esterno rafforzi la tenuta sociale del regime, la consolidi. Di qui partirebbe un ragionamento da soppesare attentamente: “E la coesione sociale in America su cosa si basa? Perché l’amministrazione non vuole un conflitto prima del voto?” “Le guerre sovente si giocano sul consenso, sulle ricadute nella politica interna dei conflitti internazionali”, fa notare Khalil Helou. Ecco allora che l’idea di “comportarsi come ai tempi di Carter” potrebbe convincere alcuni settori dell’establishment iraniano. Ma solo per motivi economici? Osserva Sami Nader: “Se guardiamo al teatro siriano, ancora lontano dallo stabilizzarsi, vediamo che se nessuno dei vincitori ha i soldi per ricostruire il paese i rapporti tra di loro, cioè tra Russia e Iran, sono più difficili di quel che è stato. Conseguito il risultato comunemente condiviso, ora si tratta di conseguire risultati diversi: tutela degli interessi russi per Mosca, di quelli iraniani per Teheran. A partire dall’influenza sul governo di Damasco”.

E ha continuato: “Così non può non colpire che quando gli Emirati Arabi, alleati dei sauditi, hanno cercato di ristabilire relazioni con Damasco, Assad è dovuto volare a Teheran, quasi a dimostrare che esistono due anime in un corpo, non solo quella russa, favorevole ad aprire alle petromonarchie, ma anche quella iraniana. Così la pista emiratina, che poteva dire investimenti vitali per una Damasco affamata, si è raffreddata. Perché Assad non si è dimostrato pronto a pagare il prezzo richiesto, che dal punto di vista degli Emirati non riguarda certo la qualità delle relazioni con Mosca, ma con Teheran”. Dunque i risultati conseguiti in anni di guerra non sono garantiti e la morsa delle sanzioni rischia di rendere meno stabile la presa iraniana anche altrove, in Iraq e Libano ad esempio. In questo contesto e con il fronte economico in ebollizione per il costo ingente delle sanzioni, Teheran può ritenere che solo lo spettro di un conflitto può dissuadere gli americani dal mantenere la linea sin qui tenuta, o magari invertire la tendenza elettorale risucchiando il paese di Trump in un conflitto costoso e sgradito all’opinione pubblica.

“Questa scelta – osserva Khalil Helou- non scaturirebbe da azioni iraniane dirette, ma verrebbe compiuta attraverso i gruppi o le milizie legate a Teheran. Gli Houthi dello Yemen, gli Hezbollah libanesi, i tre gruppi attivi in Iraq o Hamas, i cui rapporti diretti con Tehran sono stati ristabiliti”. Gli Houthi non sono leali a Teheran come gli altri, anche perché appartengono a una scuola sciita diversa da quella iraniana, questi sono jafariti, mentre gli Houthi sono prevalentemente di scuola zaydita. Ma hanno già colpito, con i droni impiegati contro infrastrutture e navi saudite. “Sappiamo della guerra nello Yemen che coinvolge Houthi e sauditi, ma quei droni – assicura il generale – non sono stati fabbricati in Iran. Il materiale è giapponese, tedesco, può essere acquistato da chiunque sul mercato internazionale, iraniano sarà però il software di certe attrezzature. Ma sebbene nessuna inchiesta ufficiale sia stata ancora conclusa noi sappiamo che quegli armamenti avevano un raggio d’azione di 1400 chilometri e hanno colpito a 800 chilometri di distanza”.

Nel suo ragionamento, l’Iran avrebbe potuto contenerli, come potrebbe contenere gli altri, ma se non lo farà il punto più delicato diventerebbe l’Iraq. Lì l’Iran, convengono tutti, non può permettersi né errori né distinguo, come quelli trasparenti in tanti politici sciiti compreso l’attuale primo ministro. E vista la presenza militare americana in Iraq, il rischio di un punto di attrito che si trasformi in qualcosa di più è evidente. In questo contesto pensare a sviluppi nucleari, in termini di ordigni tattici, non è possibile escluderlo. Nessuno accetta di parlarne apertamente, ma bisogna sapere con chi si ha a che fare se si vuole evitarlo. Il livello di tensione dunque è altissimo e nessuno può escludere che l’ipotesi subordinata, e cioè che Libano, da tempo considerata la prima linea della battaglia iraniana, possa divenire il luogo di attrito, l’innesco di una miccia capace di arrivare molto lontano. Non a caso il segretario di stato americano, Pompeo, ha visitato proprio Baghdad e Beirut. E gli sviluppi petroliferi al largo delle coste del Levante sono noti.



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