Nel tempo delle rivendicazioni “sovraniste” e del riemergere della discussione sulla identità delle nazioni, la ripubblicazione, ad opera dell’editrice Oaks, a settant’anni alla prima edizione, del libro di Ettore Rota (1883-1958), grande storico ingiustamente dimenticato, Genesi storica dell’idea italiana, con il nuovo titolo Italia, storia di un’idea (2 volumi, € 40,00), è un contributo da prendere in seria considerazione poiché ci immette in una tematica superando i caratteri della superficialità e dell’approssimazione che riscontriamo purtroppo di frequente.
La genesi storica dell’Italia, come si sa, è stata molto complessa. E se da Roma non si può prescindere, va precisato pure che essa, nella stratificazione di eventi e culture che hanno contribuito a formarla come “sentimento” prima che come “ragione” nazionale, è tributaria degli eventi che almeno quattro secoli dopo la caduta dell’Impero si imposero in una Penisola devastata che soltanto barbari dotati di uno spirito elevato s’ingegnarono a ricostruire. E da quella ricostruzione, avvalendosi di altre esperienze storico-culturali, rinacque l’Italia. Non più romana, ma molto più composita.
Senza negare il rapporto tra Roma e l’Italia, declinato in modo diverso rispetto a correnti che fanno derivare dall’azione romana il primo nucleo della creazione di una nazione italica, Gioacchino Volpe, osservava, non senza ragione: “Col cristianesimo e con i primi barbari, noi cominciamo a vedere un qualche profilo di vita italiana. Tutta la penisola, e solo essa, forma una delle nuove Monarchie in che si scinde l’Impero di Roma. Si delineano anche, con i Longobardi, alcuni fatti e situazioni che più tardi entrano a costituire la trama della nostra storia: il potere politico dei Papi a Roma e in Italia, dove poi si consoliderà il vero e proprio Stato della Chiesa; la loro irriducibile opposizione ad uno Stato peninsulare e l’orientamento verso le monarchie cattoliche di Occidente, in modo speciale verso la Francia, proclamatasi tutrice degli interessi e della Chiesa e della fede, come più tardi della ‘civiltà’ a legittimazione di un primato nel mondo; l’antagonismo Stato-Chiesa, con i particolari caratteri che assunse fra noi e il dissidio profondo e, nella pratica, quasi solamente italiano, fra i cittadino ed il credente”.
Ma questo non bastava, secondo Volpe. L’unità politica incarnata da Odoacre e Teodorico era fittizia, precaria, abborracciata, nata già equivoca e sfibrata. Bisogna attendere ancora secoli – nei quali, per inciso, il monachesimo quasi sempre trascurato, assunse una funzione importante, non soltanto religiosa, ma anche anche culturale nel trasmettere la classicità (perfino pagana) al mondo che si stava ricomponendo – per vedersi profilare una identità nazionale che abbia “individualità e carattere”, come sosteneva Volpe nel breve e illuminate saggio Origini della nazione italiana.
La popolazione romanizzata aveva subito contraccolpi micidiali dalle invasioni; la più parte degli invasori si era, tuttavia, scompaginata a fronte di conflitti interni ed esterni, ma aveva messo comunque radici profonde sul suolo italico facendone proprie le culture e le tradizioni delle genti autoctone che lo abitavano. Un processo di assestamento si stava compiendo e, forse, un’idea di nazione, almeno in alcuni ceti intellettuali e politici, cominciava nuovamente a manifestarsi, almeno nell’accezione che le sarebbe stata data agli albori del XVIII secolo.
Il che ci fa capire, non diversamente da quanto sostiene Ettore Rota nel suo illuminante saggio, come l’indagine sulla nascita della nostra nazione, quale comunità di destino sostenuta da una identità complessa, “suppone una storia d’Italia unitariamente intesa”. Ed è questa la ragione per cui riproponiamo quest’opera di Rota, avvincente e puntuale nel descrivere gli accadimenti che ci hanno portato ad essere ciò che siamo, un popolo che nello Stato-nazione ritrova la sua unità, fermo restante l’intento dello storico di narrare la “genesi”, appunto, dell’idea nazionale attraverso l’esame introspettivo del passato “anche quando la nazione dormiva nelle coscienze”, eppure esisteva, come esisteva ed agiva nel profondo, quasi misteriosamente non diversamente dalle origini cui si è fatto cenno, l’anima della nazione che dava vita ad atteggiamenti spirituali e all’affermazione di un pensiero che avrebbe segnato la sua vicenda, non meno di quelle di altri Paesi europei. Cos’è, dunque, l’idea italiana? Secondo Rota “Il prisma che decompone in tinte visibili gli elementi animatori e conservatori della nazionalità, riposti nell’interiore della nostra psiche”.
E’ per questo che “l’Italia, come nazione, è una conquista storica, con ritmo diverso dall’uno all’altro secolo, ma conquista continua, nella quale si assomma il lavoro di tutti i giorni, di tutto il nostro popolo, il lavoro d’ogni suo ceto, e di tutti i centri vitali, piccoli e grandi”.
Nel suo lavoro Rota non dimentica di sottolineare, alla stessa stregua di Volpe e di Gramsci, come l’Italia formandosi abbia avuto un carattere anche europeo. E, infatti, scrive in premessa: “La storia della nostra formazione politica è, per alcuni tratti, storia europea: né potrebbe non essere perché l’Italia visse nell’Europa ed ebbe sempre con questa rapporti di interessi e di pensieri; come la storia europea è, per una grande porzione, storia italiana, ossia frutto di nostra semente e di nostra diretta e indiretta attività; ma se l’Italia è entrata nella famiglia europea portandovi una sua distinta fisionomia spirituale, ciò si deve all’esistenza di una idea italiana, di una volontà italiana di rinascita, ricca di contrasti, lacerata da insistenti avversità, ma insistente a sua volta, perciò continua, e frutto di una infaticabile reazione interiore”.
In questa luce sarebbe bello e confortante credere che l’Italia sia ancora “terra dalle molte vite sempre rinascenti”, come diceva Volpe riprendendo suggestioni carducciane che forgiarono generazioni di giovani agli inizi del secolo scorso. Ciò che ci propongono questi nostri disgraziatissimi tempi , invece, non induce alla speranza, ma anzi fa precipitare le residue certezze, pur da qualcuno coltivate, sulla possibilità di rinascita della nazione italiana.
Del resto, settant’anni di progressiva disaffezione dall’idea di Patria connessa alla negazione dello Stato-nazione, conquista di secoli secondo l’avvincente racconto di Rota, riguardati come il male supremo da esorcizzare ad ogni costo, hanno fatto perdere agli italiani formatisi dopo la guerra quel senso dell’identità e dell’appartenenza su cui si fonda un’educazione nazionale, grazie alla quale si acquisisce poi la coscienza civica necessaria ad informare comportamento responsabili nei confronti della comunità.
La rottura con la “religione” della nazione ha portato a privilegiare lo spirito di fazione oltre ogni indecente aspettativa e a coltivare quel particolare di guicciardiniana memoria che a lungo è stato d’ostacolo alla ricostruzione dello Stato inteso come proiezione giuridico-politica dei valori del popolo. Pertanto ci si è riconosciuti, se così si può dire, nelle fazioni, nei partiti, nei sindacati, nell’associazionismo più vario, ma non in un principio organico e “naturale”, cioè a dire preesistente per come è andato formandosi in parallelo con la comunità, qual è lo Stato-nazione.
Contro l’unità politica della nazione, la cui “genesi” appunto dovrebbe far riflettere, poteri extra-statuali hanno ingaggiato una guerra oggettivamente finalizzata a distruggere il tessuto connettivo dell’aggregazione nazionale e statuale sopprimendo i valori che nel sono a fondamento utilizzando la famiglia, la scuola, i media, le agenzie di orientamento a tal fine. Pochi – e con scarsi mezzi – si sono opposti al dominio delle oligarchie antinazionali senza ottenere il risultato sperato, quello di rianimare appunto l’idea di nazione.
Dobbiamo amaramente constatare che alla latitanza dello spirito unitario nazionale tiene dietro un progetto di completa disgregazione prossima al dissolvimento della nazione stessa. La Patria è diventata una sorta di gadget collettivo da sventolare in occasioni banali che pure eccitano la collettività. Ma se si prova a chiedere agli studenti medi o liceali che cos’è la Patria, le loro labbra rimangono inesorabilmente chiuse. Non si ha coscienza di ciò che si è; non si conoscono le proprie origini; importa poco o niente che “altri” abbiano le chiavi del nostro presente e del nostro avvenire. Ciò che non si potrà perdonare mai alle classi dirigenti del secondo dopoguerra è il “lavaggio del carattere” programmato ai danni degli italiani ai quali è stata negata perfino la conoscenza delle loro origini con un metodico e minuzioso processo di sradicamento culturale che ha inciso nel profondo nella coscienza nazionale.