Coloro che hanno meno di quaranta-quarantacinque anni non hanno provato il piacere nello sfogliare i quotidiani di passare repentinamente dalle notizie prevalentemente politiche e “generaliste”, sviluppate o soltanto “strillate” nella prima e poi “girate” nella seconda pagina, alla mitica Terza che segnava una traumatica interruzione nello svolgimento del racconto degli avvenimenti con l’immersione in uno spazio che trascendeva l’attualità. Una bizzarria, si potrebbe dire oggi, e forse lo era. Ma il trasbordo, quasi inavvertito, dalla cronaca tout court alla cultura, alle pennellate letterarie, alle segnalazioni librarie, ai reportage d’autore, alle acute e brillanti digressioni o provocazioni di accademici, intellettuali, ideologi, era come una boccata d’aria ad alta quota che consentiva una pausa per chi nella lettura viziosamente indugiava senza andare oltre, o accarezzava il piacere del “dopo” ripromettendosi di assaporare ogni riga nei momenti di raccoglimento, quando la mente era finalmente sgombra dai pensieri “profani”.
Il bello stile, unito alla profondità delle descrizioni e delle analisi, miracolosamente comprensibile anche a chi non avrebbe poi disertato né la cronaca nera, né la bianca, né l’informazione economica, né gli spettacoli e men che meno lo sport, trasportava chiunque si soffermasse sulla Terza in un rarefatto mondo di ricordi, memorie, scoperte e fantasie.
La creatività del giornalismo culturale non era inessenziale orpello di un quotidiano che aveva la necessità di ingentilire un prodotto votato soprattutto ad informare i lettori di ciò che accadeva nel mondo, ma piuttosto l’anima del quotidiano stesso posto che esso, quando divenne qualcosa di più di un elementare foglio nel quale era racchiuso l’essenziale della vita della vita del giorno prima, tese a sperimentare la funzione di organo dedito anche alla formazione civile e culturale dei cittadini. Non che tale consapevolezza fosse estranea a chi in Italia aveva incentivato lo sviluppo della stampa ancor prima del compimento dell’unificazione politica nazionale, tanto è vero che notizie di carattere culturale – aventi perlopiù un rilevo civile e di costume – se ne pubblicavano, ma non in maniera organica e sistematica, sparse come riempitivi nelle quattro canoniche pagine che costituivano l’offerta informativa del giornale. Era piuttosto la necessità di risolvere in poche note ciò che il “pubblico colto” avrebbe afferrato dal momento che altro interessava la minoranza alfabetizzata del tempo. E a tale minoranza non ci si poteva rivolgere con pensieri e riflessioni atemporali quando premevano eventi che afferivano alla vita stessa degli italiani, colti o ignoranti che fossero.
Ma l’evanescenza della letteratura, della poesia, della musica, delle arti figurative a fronte della faticosa narrazione della sistemazione e dello sviluppo di una nazione giovane era una questione che anche il fondatore del Corriere delle sera, Eugenio Torelli Viollier si pose fin dagli esordi di quello che sarebbe diventato il quotidiano più importante del Paese. Ed a quella “evanescenza”, tutt’altro che distraente o perniciosa, si rifecero numerosi giornalisti-intellettuali nel ritenere che attraverso il variegato mondo della cultura certamente si sarebbe costruita una sorta di piattaforma identitaria sulla quale la storia profonda della nazione che si faceva Stato avrebbe agito da catalizzatrice di una vicenda comune, come comune era la lingua ed il destino unitario di un popolo che si ritrovava socialmente e politicamente.
Non sapremo mai cosa davvero agì nell’animo di coloro che, da giornalisti illuminati, inventarono la Terza pagina quale luogo nel quale far ritrovare L’Italia del bello scrivere che in questo libro ci racconta, con dovizia di particolari, Ada Fichera.
Certo, lo sanno tutti che fu Alberto Bergamini, giovane ed intraprendente direttore del romano Giornale d’Italia ad inventare, quasi per caso, nel 1901, quella che sarebbe stata permanentemente la pagina culturale di quel quotidiano e poi di tutti gli altri. L’occasione gliela fornì il più estroverso, prolifico, e “prodigioso” scrittore del tempo: Gabriele d’Annunzio. Si rappresentava a Roma, al Teatro Costanzi, Francesca da Rimini , interpretata dall’affascinante Eleonora Duse. Il Vate, non ancora tale, riponeva nell’opera una speranza che divenne certezza: essere celebrato come la sua vanità ed il suo genio esigevano. Era il 9 dicembre 1901, l’alba di un secolo “inventato” anche da d’Annunzio. Bergamini, colto ed intelligente, comprese che una una colonna di spalla in prima pagina non avrebbe soddisfatto i suoi lettori nel rendere conto dell’evento del Costanzi dove sarebbe nata la stella più brillante del firmamento letterario italiano del Novecento. Inviò a seguire la rappresentazione quattro redattori e quattro servizi avrebbe messo in pagina: musicale, scenografico, critico e mondano. Già, ma in quale pagina? La più evidente dopo la prima; vale a dire la Terza.
Il trionfo di quel debutto non poteva lasciare indifferenti ammiratori e detrattori. E segnò l’ingresso nel grande giornalismo del quotidiano romano che aveva stentato fino a quel momento. Sopratutto fu chiaro, e non solo a Bergamini, che la cultura poteva fare irruzione nella fragile società italiana attraverso la sistematicità dell’offerta che un quotidiano poteva garantire. Ada Fichera, cogliendo il senso di quell’ “esperimento”, annota che la Terza pagina “ha il grande merito di di introdurre in Italia uno spirito nuovo e originale, in grado di rompere le barriere di un consistente accademismo e provincialismo”.
La pensava così anche un altro grande “interprete” della Terza pagina, Enrico Falqui, il grande critico napoletano (per l’esattezza nato a Frattamaggiore proprio nell’anno della nascita di quella pagina che avrebbe “accudito” per Il Tempo di Renato Angiolillo dal 1948 al 1965, quando la lasciò nelle capaci mani di Fausto Gianfranceschi che ne fece una sorta di Senato dell’intelligenza e della raffinatezza). E tanto basta a chiudere la disputa aperta a più riprese, anche nelle redazioni giornalistiche, sull’utilità dei servizi culturali a meno di non considerarli ancillari rispetto al resto del giornale.
Bergamini, per di più, con la sua singolare e sorprendente iniziativa segnò una svolta, come osserva la Fichera, nei rapporti tra intellettuali e classi dirigenti, assicurando alle opposizioni politiche e culturali conservatrici del tempo “uno strumento d’opinione solido e influente” (…).
Poi tutto è cambiato. “Televisizzandosi” il giornalismo anche la pagina più nobile ha seguito lo stesso impulso, e non poteva essere diversamente. Nel completare l’omologazione informativa si pensò alla metà degli anni Settanta di abolire la Terza pagina, ma nello stesso tempo di dare respiro alla cultura sempre più condizionata dalla politica allargandola alle pagine centrali del giornale: fu la rivoluzione scalfariana di Repubblica, non priva di fascino, va pure detto, che indirizzò e condizionò tutti gli altri quotidiani. Una modernizzazione dagli esiti tutt’altro che disprezzabili anche per gli affezioni dei consueti spazi d’informazione culturale.
In seguito la Terza venne abbandonata quasi da tutti. E purtroppo non tutti riuscirono a mantenerne almeno lo spirito. L’ultimo a cedere fu Paolo Mieli, direttore del Corriere della sera, nel 1992. Poco alla volta – con l’eccezione di pochi quotidiani che perlomeno salvavano lo spirito dell’antica tradizione – cedettero tutti fino alla scomparsa in molti prestigiosi giornali delle sezioni culturali (…).