Le parole con le quali il presidente Usa Donald Trump ha spiegato che la questione Huawei potrebbe essere risolta inserendola nell’accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina rappresentano una proposta di forma, più che di sostanza. Dietro la quale c’è il profondo (e giusto) convincimento di Washington che, dopo anni di squilibrio a favore della Repubblica Popolare, il rapporto con Pechino debba subire un forte ribilanciamento.
A crederlo è Alberto Forchielli, managing partner del fondo di private equity sino-europeo Mandarin Capital Partners, che in una conversazione con Formiche.net spiega perché la Casa Bianca sta abilmente giocando una partita che mette all’angolo i colossi tecnologici cinesi.
Forchielli, il presidente americano Trump ha annunciato di essere disponibile a risolvere i noti problemi con Huawei a patto di includere la questione nell’accordo commerciale in discussione con Pechino. La ritiene una strada percorribile?
A dire il vero no, per diverse ragioni, e credo che la Casa Bianca ne sia consapevole. Si tratta di una proposta di forma, più che di sostanza. In primo luogo perché facendo passi indietro, Pechino capitolerebbe. E poi perché la discussione sull’accordo commerciale va avanti da tempo e si è arenata sul fatto che i cinesi si sono rifiutati di convertire in legge gli impegni relativi a quattro punti voluti dagli americani, alcuni dei quali estremamente importanti.
Quali?
Washington considera fondamentale ciò che riguarda il furto di tecnologia, gli incentivi alle imprese pubbliche, le azioni contro le imprese straniere e il trasferimento forzato di tecnologia. Senza regole certe su questi aspetti non si va da nessuna parte, e giustamente a mio parere.
Nel frattempo gli Usa hanno preso provvedimenti che limitano l’azione delle aziende americane e inseriscono Huawei in una ‘lista nera’ del Dipartimento del Commercio. Condivide la scelta trumpiana?
Sì, e non solo nel caso specifico. Il tema è molto più ampio e Trump sta facendo le scelte giuste. Per spiegare cosa è accaduto in questi ultimi 20 anni utilizzo una metafora ciclistica. Da tempo gli Stati Uniti tirano alla Cina la volata. Pechino ne ha approfittato, senza mai dare il cambio, godendo di tutti i vantaggi della scia ma senza mai pedalare faticando davvero. Ora Washington si è stancata e – grazie ai suggerimenti dell’Intelligence Community guidata da Dan Coats, del numero uno del Fbi Christopher Wray e del rappresentante per il Commercio Robert Lighthizer – prende i giusti provvedimenti, che non riguardano solo le aziende.
Quali altri provvedimenti stanno prendendo gli Usa?
Ci troviamo di fronte a una strategia complessa e composita. Stanno agendo su sei leve che sono: gli investimenti con nuove regole per il Cfius, il Comitato di controllo sugli investimenti esteri negli Stati Uniti; il commercio con le tariffe; la tecnologia con limitazioni di import e export; i dati, con limitazioni ancora più stringenti sugli investimenti in obiettivi ad alta intensità di dati; le persone, con una stretta sui visti per gli studenti cinesi, che accorrono in massa nelle università americane per poi tornare nella madrepatria con un bagaglio, anche di know-how, non indifferente, del quale beneficia il Paese; e i centri culturali come gli Istituti Confucio.
Tornando ai dossier tecnologici, c’è però chi teme che le scelte Usa su Huawei e altre compagnie possano portare a ritorsioni cinesi e a un danno per le stesse aziende Usa. Ci saranno conseguenze per Washington?
Sono cose che si leggono solo in Italia, dove la schiera filocinese sembra essere ampia, tanto da aver aderito a un progetto fumoso e pericoloso come la Via della Seta, che per il momento crea solo problemi geopolitici e in prospettiva di sovranità. In verità su questo si dicono molte inesattezze. Quella più in voga in queste ore riguarda le terre rare utili ai dispositivi tecnologici, che i cinesi dovrebbero smettere di fornire. La verità è che queste terre non sono poi così rare, ma semmai trattarle è un lavoro faticoso che in Occidente si preferisce far fare altrove. Ma se dovesse esserci necessità ci si metterebbe pochissimo a riaprire i depositi minerari già esistenti da dove estrarle. Inoltre tutti i semiconduttori del mondo alla fine hanno una licenza americana; l’unione di questi due aspetti rende autonomi gli Usa e non la Cina.
Si sente spesso, poi, che la Cina ricatterebbe gli Usa grazie al fatto che possiederebbe una grossa fetta del debito pubblico americano. Non è vero nemmeno questo, perché Pechino possiede solo il 5% del debito statunitense.
E, ancora, un altro luogo comune è che i cinesi si vendicheranno sulle imprese Usa in Cina, ma se lo facessero sarebbe solo un grosso favore al governo americano, perché questo accelererebbe il decoupling (letteralmente “disaccoppiamento”, ndr) delle catene di approvvigionamento, vero obiettivo di Trump. Non è un caso che Ren Zhengfei, il fondatore di Huawei, abbia consigliato ai vertici cinesi di non prendersela con le imprese ma con politici. Anche perché creare problemi alle aziende straniere avrebbe un effetto negativo anche su quelle compagnie, non americane, che temerebbero per il loro futuro in Cina in caso di problemi tra i loro governi. E Pechino non può permetterselo, perché ha ancora forte bisogno di investimenti stranieri soprattutto nel settore tecnologico.
Per il momento, di certo, stiamo assistendo ad aziende americane come Flex che in Cina stanno mettendo a riposo, per ora temporaneamente, i loro impiegati.
Aggiungiamoci il fatto che non sarà facile, per Huawei o qualsiasi altra tech cinese, creare un sistema operativo all’altezza delle aspettative degli utenti, e questo perché non è assolutamente vero che la Cina stia sorpassando gli Usa dal punto di vista tecnologico. Magari sta investendo molto, ma è ancora molto indietro ed è per questo che cerca disperatamente di ottenere tecnologia americana. Tutto ciò la dice lunga su chi ci sta perdendo davvero in questo scontro.
Perché Trump insegue il disaccoppiamento delle supply chain?
Ci sono evidenti ragioni commerciali e di sicurezza, come quelle che riguardano il 5G, ma è anche un modo per bilanciare il rapporto domestico con le Big Tech che in questi anni hanno goduto di grandissima libertà, arrivando a lavorare con la Cina anche a progetti con applicazione militare. Così facendo, Trump – anche attraverso l’idea che gli Usa potrebbero essere superati, come detto una cosa ancora lontana – le costringe a diventare più “patriottiche”, anche a costo di perdere qualche punto di mercato. Ma a Trump i veri dazi che danno fastidio sono quelli sui prodotti di consumo, quelli di Walmart per intenderci. Negli Usa è forte l’esigenza di bilanciare l’enorme ricchezza prodotta da poche, grosse aziende della Silicon Valley e la manifattura e gli operai in grossa difficoltà a causa della globalizzazione. Se ci si pensa, è decisamente coerente anche con la retorica del presidente americano e con i bisogni del suo elettorato.