C’era da aspettarselo. Dall’Algeria c’è sempre da aspettarsi qualcosa che suscita inquietudine. È così da oltre sessant’anni. Le elezioni presidenziali erano state indette per il prossimo 4 luglio. Tra i candidati non ci sarebbe stato, per la quinta volta, Abdelaziz Bouteflika dimessosi il 2 aprile scorso sotto la pressione delle manifestazioni di piazza e su “consiglio” dei capi delle forze armate che detengono il potere effettivo.
Malato, assente dalla vita pubblica, da tempo ricoverato in una clinica Svizzera, ininterrottamente presidente dal 1999, il leader algerino, grazie ad una riforma costituzionale varata dal “suo” Parlamento, si apprestava ad insediarsi per la quinta volta al vertice dello Stato. Ma la pazienza del popolo, che vive una grave crisi economica ed è in preda a convulsioni politiche e sociali di ogni tipo, è finita ed ha costretto Bouteflika a ripensare al proprio progetto. Indubbiamente nella decisione hanno pesato i militari che, come ombre ingombranti, sono sempre stati dietro il potere politico, determinandone le scelte, gli orientamenti, il corso autoritario, fin dai tempi di Houari Boumédiène, del quale Bouteflika era il ministro degli Esteri e da tutti considerato il “delfino”. Ma la successione sarebbe arrivata più tardi e non nel 1979, come previsto, tanto che venne messo ai margini della vita politica e poi costretto anche ad un esilio, mai spiegato, prima negli Emirati arabi e poi in Francia dove preparò la sua strategia che lo riportò al potere, fino a diventare presidente nel 1999.
Nell’annuncio dato dal Consiglio costituzionale algerino in un comunicato in cui si sottolinea “l’impossibilità” di organizzare la tornata elettorale, c’è sicuramente lo zampino dell’oligarchia algerina e naturalmente dei militari. La motivazione ufficiale è piuttosto speciosa. Le uniche due candidature depositate ufficialmente – è stato reso noto – sono state rigettate dal Consiglio costituzionale, senza spiegarne le ragioni. Secondo questo organismo, tutt’altro che pluralista, spetta adesso al capo dello Stato, cioè al dimissionario Bouteflika, la fissazione della nuova data, sempre che si trovino dei candidati sufficienti e valutati, secondo oscuri criteri, a concorrere per la presidenza.
Si ha l’impressione che la palla la giochino, come di consueto, i militari insieme con l’oligarchia che cerca nuovi referenti dopo Bouteflika ( non è improbabile che una lotta fratricida sia in corso nelle segrete stanze di Algeri). E non si escludono tumulti di piazza e, forse, anche qualcosa di più grave. L’insurrezione ad Algeri e ad Orano vive come costante possibilità di promuove cambiamenti traumatici, mentre il pericolo di una riapparizione dei Fratelli musulmani non è mai da esclude a priori.
Secondo un report del 2010 della Freedom House di Washington, l’Algeria non è un paese libero, non vi è libertà di stampa e non è una vera democrazia rappresentativa. La stessa “primavera araba”, che fu un flop politico organizzato da alcuni paesi occidentali, non scalfì, se non in superficie, l’establishment algerino il quale, va ricordato, riuscì vittorioso dal conflitto con gli integralisti islamici.
Eletto per la quarta volta il 17 aprile 2014, Bouteflika ha governato per procura, viste le sue condizioni di salute che lo hanno a lungo tenuto lontano dal Paese. Forse il risultato delle ultime elezioni per il rinnovo dell’Assemblea parlamentare, svoltesi il 4 maggio 2017, vinte dal Fronte di Liberazione nazionale, ha indotto la popolazione ed una parte dei militari a chiedere un cambiamento che poi non si realizzato.
Dopo il quarto mandato, iniziato nel 2014, quando ottenne la percentuale più bassa di consensi, Bouteflika avrebbe dovuto mollare. Non lo ha fatto. Entrò l’anno successivo addirittura in rotta di collisione con i vertici dei servizi segreti che lo avevano sempre sostenuto. Per tutta risposta varò, con la forza del suo Parlamento e di una consistente porzione della popolazione, una riforma costituzionale complessa che limitavani, privilegi e le prerogative del potere militare, con l’ appendice della destituzione del capo dell’intelligence, il potente generale Toufik che aveva guidato il feroce apparato per circa venticinque anni, gli anni di Bouteflika che si assunse il ruolo di supervisore dei servizi mettendogli a capo suoi devoti.
Che cosa accadrà ora, dopo questo ultimo colpo di coda del potere del presidente agonizzante (politicamente), nessuno può dirlo. Nessuno riesce ad ipotizzare uno scenario plausibile. Si manifestano soltanto timori.
Algeri è una tana di complotti. Il clima adatto per instaurare una dittatura militare. Con tutte le conseguenze che si possono immaginare.
Chi conosce questa splendida città, africana ed europea, e ha negli occhi la sua baia che sembra abbracciare il Mediterraneo, vedendola dalle alture dove sorge la residenza di Stato chiamata El Mithak, che che vuol dire Carta perché lì venne firmata la Costituzione algerina, non può che incupirsi e riandare con la mente ai molti bagni di sangue che essa ha vissuto.
Lo sguardo che sprofonda nel violaceo braccio di mare dove si perdono all’alba e al tramonto i sogni mediterranei di chi è capace di immergersi nelle storie che hanno segnato quel luminoso spazio, in questi giorni cerca di interpretare movimenti che dalla Cabila al mare si intensificano, insieme con le paure di una popolazione destinata a non trovare requie. Algeri, ancora una volta, trema. E teme di smarrire il suo destino di ponte tra due mondi.