Dall’incontro dei ministri delle Finanze e dei banchieri centrali del G20 appena concluso in Giappone è emerso l’impegno a raddoppiare entro la fine del prossimo anno gli sforzi per arrivare a una tassazione dei giganti del Web.
Un percorso che per Sergio Boccadutri, già deputato del Pd, esperto di innovazione e oggi direttore generale della Fondazione Luigi Einaudi (che proprio domani terrà un incontro sul tema), potrà avvenire solo a patto che “tutti si assumano, senza ansia, la responsabilità di decidere assieme e di fissare strategie condivise e coerenti con le peculiarità dell’economia digitale”.
Dall’incontro dei ministri delle Finanze e dei banchieri centrali del G20 appena concluso in Giappone è emerso l’impegno a raddoppiare entro la fine del prossimo anno gli sforzi per arrivare a una tassazione dei giganti del Web. Come valuta questa scelta?
Il fatto che sia una posizione comune è la conferma che l’Italia sta utilizzando espedienti inutili per tassare autonomamente le imprese digitali o addirittura la Rete. Il G20, così come le grandi sedi internazionali, sono il luogo adatto dove discutere non solo dei giganti del Web, ma anche della produzione di ricchezza generale che deriva dall’utilizzo dei dati. L’economia digitale impone un ripensamento delle regole fiscali, senza dubbio, ma sono comunque decisioni che vanno prese in maniera condivisa.
Che riflessioni andrebbero compiute prima di procedere con una digital tax?
Il problema è che bisogna decidere se cambiare le regole o meno – cosa richiesta dal sistema internazionale – ma allo stesso tempo capire chi trae vantaggio dalla mancanza delle stesse. A livello fiscale il problema è la delocalizzazione delle sedi fiscali delle imprese, soprattutto quando non producono beni ma vendono servizi digitali, per questo è difficile delimitare i confini del digitale con una legge nazionale. Inoltre non ha senso agire facendo di tutta l’erba un fascio: le piattaforme digitali hanno delle loro caratteristiche peculiari, che non possono essere ignorate.
Non è ancora chiaro, inoltre, come potrebbe funzionare la digital tax. L’idea, secondo le indiscrezioni circolate a margine del summit, è di tassare le multinazionali digitali non più sulla presenza fisica, dove si trovano i loro uffici, ma in base a dove registrano le loro entrate. Lo trova giusto? Che effetti potrà avere tutto ciò?
Il punto centrale è il metodo. L’importante è che tutti si assumano la responsabilità di decidere assieme e di fissare strategie condivise e coerenti con questo nuovo tipo di economia.
Che soluzioni adottare, dunque?
Di certo si tratta di un fenomeno nuovo e come tale va prima osservato e definito, quindi regolato, in particolare poiché ad oggi l’economia non è più legata solo al territorio, per questo si dovrebbe puntare su una normativa internazionale. Ma va fatto senza ansia, o si rischia di fare pasticci.
Un altro dei temi sul tavolo delle più grandi economie del pianeta, analizzato sulla Stampa dal direttore Maurizio Molinari, è la proposta del premier giapponese Shinzo Abe – formulata a gennaio nel corso del World Economic Forum di Davos – di fare propri i principi sull’IA approvati a maggio dai Paesi Ocse, che prevedono uno sviluppo responsabile e etico di questa tecnologia. Come considera questo passo?
Io sono d’accordo con l’impegno condiviso di Shinzo Abe. La Commissione europea quest’anno ha parlato di un’IA antropocentrica, che quindi si sviluppi guardando comunque alle persone. Chiaramente non tutti i Paesi la pensano in questo modo: l’IA può essere utilizzata per il controllo sociale, ovvero i dati possono essere considerati a solo al servizio del mercato. Mentre se pensiamo all’Unione europea il tentativo di affiancare l’intelligenza artificiale alle persone rappresenta una sfida molto importante.
Sempre parlando di IA e big data, prende corpo l’ipotesi che i dati digitali vengano trattati in modo diverso, ovvero che quelli di persone fisiche, di proprietà intellettuale e di sicurezza restino protetti, mentre quelli che possono far fare progressi scientifici, come quelli sulla salute, debbano essere condivisi dopo essere opportunamente resi anonimi. Lo trova giusto?
È sempre un discorso di regole, che sono poi quelle che mancano. Esiste un modo di risalire ai dati sanitari o commerciali anche in condizioni di iniziale anonimato, di conseguenza anche in questo caso il punto di partenza delle grandi sedi internazionali dovrebbe essere quello di fissare un bacino di regole su cui poi gli Stati possano impostare la propria linea.
Un ultimo punto affrontato al summit riguarda la guerra dei dazi tra Usa e Cina, che sta avendo anche importanti ripercussioni nel mondo tecnologico. Che scenari prevede?
La Cina ha approfittato di alcune concessioni combinandole con un sistema di regole vecchio di venti anni. Se la Cina vuole far parte giustamente di un determinato mercato, tanto più se riguarda l’innovazione e la tecnologia, dovrebbe accettarne le regole. Ad esempio, un’azienda europea in Cina segue direttive strettissime che spesso riguardano anche il suo know-how, mentre invece ad un’azienda cinese in Occidente non è imposto nulla. Pechino deve davvero aprirsi, solo così può cambiare il tema dei dazi sul tavolo di negoziato. L’Europa rischia – invece – di rimanere in parte isolata e di non prendere parte ad una questione che le interessa troppo da vicino.