Non sono se si è mai parlato o scritto di Eow, cioè di fine del rifiuto (“End of Waste”), come di questi tempi. Argomento una volta riservato alle riviste e siti di diritto ambientale, è diventato, ormai, un tema abbondantemente discusso su giornali generalisti. Insomma, l’Eow è ormai lo strumento da tutti indicato per facilitare il recupero e il riciclo dei rifiuti (e quindi l’Economia circolare, per quanto gli compete), mentre dall’altra la normativa sull’Eow (incompleta o assente, a seconda dei casi e del momento ) diventa anche l’unica spiegazione per l’immobilismo autorizzativo. Nel frattempo tutti i tentativi per dare una normativa nazionale che consenta l’autorizzazione di impianti per la produzione di Eow sembra naufragare miseramente.
CHE COSA È L’END OF WASTE?
Che cos’è un EoW? È una materia prima che proviene da un rifiuto individuato per tipologia, trattato in maniera adeguata e che risponde a determinati standard.
Per un po’ di tempo l’attività autorizzativa a livello regionale ha tenuto conto degli standard nazionali (il Dm 5.2.1998 e simili), ma con i necessari adattamenti. Infatti, le autorizzazioni regionali (o provinciali) sono nominative e riguardano, ovviamente, casi specifici.
Invece il Dm 5.2.1998 è una procedura semplificata per incentivare il recupero dei rifiuti e opera su comunicazione: la Regione o la Provincia riceve la comunicazione sulla base degli standard indicati dal decreto; e se li rispetto devo poter partire.
Insomma il Dm del ’98 non aveva l’obiettivo di essere uno standard nazionale per il recupero dei rifiuti (in quanto era una procedura semplificata), ma con il tempo lo è diventato.
Arriva la sentenza del Consiglio di Stato, 28 febbraio 2018 n. 1129 che afferma che, in merito al fatto che certi rifiuti possono cessare di essere tali, la “declassificazione (…) deve avvenire a livello regionale, cioè per tutto l’ambito territoriale dello Stato membro”.
Apriti cielo! Si bloccano i procedimenti autorizzativi a livello regionale sul presupposto che la produzione di un Eow (cioè la produzione di una materia prima da un rifiuto) deve rispondere a standard nazionali.
Ma non per tutti ci sono standard nazionali e, soprattutto, l’Eow riguarda dei casi specifici, cioè quello di un materiale derivante da un rifiuto che entra in un altro ciclo produttivo, mentre nelle Direttive comunitarie in materia di rifiuti ci sono le famose R (R sta per recupero) che indicano il recupero di materia prima, il riciclo, il recupero energetico e via cantando.
Insomma l’Eow è una delle strade per arrivare al recupero e al riciclo, mentre esistono una serie di casi (quasi infiniti) che l’autorizzazione nominativa può prendere in considerazione.
LA DECISIONE DEL LEGISLATORE
La polemica che si trascina dal febbraio del 2018 è cronaca e non ci ritorno sopra. Sta di fatto che, il legislatore, dopo infinite richieste da parte del mondo produttivo e ambientalista, assume una decisione che è ormai legge dello Stato.
Basta leggere l’art. 1, comma 19 della legge 14 giugno 2019 n. 55 (Gazzetta Ufficiale del 25 giugno, Supplemento Ordinario n. 24)
“19. Al fine di perseguire l’efficacia dell’economia circolare, il comma 3 dell’articolo 184-ter del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, è sostituito dal seguente: ‘3. Nelle more dell’adozione di uno o più decreti di cui al comma 2, continuano ad applicarsi, quanto alle procedure semplificate per il recupero dei rifiuti, le disposizioni di cui al decreto del Ministro dell’ambiente 5 febbraio 1998, pubblicato nel supplemento ordinario n. 72 alla Gazzetta Ufficiale n. 88 del 16 aprile 1998, e ai regolamenti di cui ai decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio 12 giugno 2002, n. 161, e 17 novembre 2005, n. 269. Le autorizzazioni di cui agli articoli 208, 209 e 211 e di cui al titolo III-bis della parte seconda del presente decreto per il recupero dei rifiuti sono concesse dalle autorità competenti sulla base dei criteri indicati nell’allegato 1, suballegato 1, al citato decreto 5 febbraio 1998, nell’allegato 1, suballegato 1, al citato regolamento di cui al decreto 12 giugno 2002, n. 161, e nell’allegato 1 al citato regolamento di cui al decreto 17 novembre 2005, n. 269, per i parametri ivi indicati relativi a tipologia, provenienza e caratteristiche dei rifiuti, attività di recupero e caratteristiche di quanto ottenuto da tale attività. Tali autorizzazioni individuano le condizioni e le prescrizioni necessarie per garantire l’attuazione dei principi di cui all’articolo 178 del presente decreto per quanto riguarda le quantità di rifiuti ammissibili nell’impianto e da sottoporre alle operazioni di recupero. Con decreto non avente natura regolamentare del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare possono essere emanate linee guida per l’uniforme applicazione della presente disposizione sul territorio nazionale, con particolare riferimento alle verifiche sui rifiuti in ingresso nell’impianto in cui si svolgono tali operazioni e ai controlli da effettuare sugli oggetti e sulle sostanze che ne costituiscono il risultato, e tenendo comunque conto dei valori limite per le sostanze inquinanti e di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente e sulla salute umana. Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al precedente periodo, i titolari delle autorizzazioni rilasciate successivamente alla data di entrata in vigore della presente disposizione presentano alle autorità competenti apposita istanza di aggiornamento ai criteri generali definiti dalle linee guida’”.
COSA STA FACENDO L’ITALIA?
Insomma, alla conclusione per le autorizzazioni regionali si prendono a riferimento il Dm 5.2.1998 e simili e ci potranno essere delle linee guida ministeriali. Abbiamo fatto dei passi avanti. Onestamente pochi. Ci rifacciamo a normative di venti anni fa (anzi 21) e siamo – ancora in attesa di ulteriori, future linee guida.
Troppo poco per il secondo Paese manifatturiero d’Europa che, come certificato dall’Istat, è anche nei primi posti nell’Economia circolare.
Spero che le linee guida ministeriali possano riconoscere che aggiungere uno 0,5% sulla base di standard merceologici internazionali o europei non significa cambiare gli standard fissati dal Dm 5.2.1998 e che l’aggiunta di un codice Cer non sia un evento traumatico e impossibile da accettare.
“Riconoscere” perché ciò è nella realtà, sta nelle competenze delle Regioni che rilasciano autorizzazioni nominative sulla base della situazione che viene loro sottoposta. Insomma, è la sfida della complessità. In materia, si può e si deve aspirare di più? La risposta è sì.
Basta guardare all’art. 6, paragrafo 2 della Direttiva n. 851/2018 che dobbiamo recepire entro il 2020 e che, tal proposito, prevede che la Commissione monitori l’evoluzione dei criteri nazionali per la cessazione della qualifica di rifiuto negli Stati membri e valuta la necessità di sviluppare a livello di Unione criteri su tale base. Ove appropriato, la Commissione adotta atti di esecuzione per stabilire i criteri dettagliati sull’applicazione uniforme delle condizioni di cui al paragrafo 1 a determinati tipi di rifiuti.
Tali criteri dettagliati garantiscono un elevato livello di protezione dell’ambiente e della salute umana e agevolano l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali. Laddove non siano stati stabiliti criteri a livello di Unione, gli Stati membri possono stabilire criteri dettagliati sull’applicazione delle condizioni di cui al paragrafo 1 a determinati tipi di rifiuti. Tali criteri dettagliati tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente e sulla salute umana della sostanza o dell’oggetto e soddisfano i requisiti richiesti.
Ma laddove non siano stati stabiliti criteri a livello di Unione o a livello nazionale, gli Stati membri possono decidere caso per caso o di adottare misure appropriate al fine di verificare che determinati rifiuti abbiano cessato di essere tali in base alle condizioni previste e tenendo conto dei valori limite per le sostanze inquinanti e di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente e sulla salute umana. Tali decisioni adottate caso per caso non devono essere notificate alla Commissione in conformità della direttiva (Ue) 2015/1535.
Si prevede, infine, che gli Stati membri possono rendere pubbliche tramite strumenti elettronici le informazioni sulle decisioni adottate caso per caso e sui risultati della verifica eseguita dalle autorità competenti.
Insomma la Direttiva, anzi l’art. 6, paragrafo 2, prevede un’armonizzazione competitiva con tre diversi livelli: uno europeo, l’altro nazionale e infine il caso per caso. E cosa fa la seconda potenza manifatturiera d’Europa ed uno dei primi Paesi per Economia circolare?
Decide di rifarsi esclusivamente a norme di venti anni fa e a future linee guida, invece di recepire l’art. 6, paragrafo 2 della Direttiva n. 851.
Troppo poco per l’industria italiana e la seconda potenza manifatturiera d’Europa. Troppo poco per l’Economia circolare.
Davvero poco anche per l’Italia.