Nelle ultime settimane il Golfo Persico è stato un teatro tesissimo in cui, mentre gli Stati Uniti aumentavano la propria presenza militare, si sono svolti alcuni incidenti/sabotaggi contro navi da trasporto civile. Ieri due petroliere sono andate in fiamme poco a sud dello Stretto di Hormuz, checkpoint per cui transita circa il 40 per cento del petrolio commerciato via mare a livello globale, protagonista di una vicenda simile il 12 maggio, quando altre quattro petroliere sono state sabotate poco fuori dell’hub energetico di Fujairah, negli Emirati Arabi.
Gli americani, con il segretario di Stato, Mike Pompeo, hanno accusato apertamente l’Iran di quanto è successo, tuttavia né Washington né Teheran sembrano intenzionati a procedere verso un’escalation. “Sarei molto cauta in effetti, perché ci sono dei fatti incontestabili, è vero, ma prima di arrivare a conclusioni servono maggiori informazioni“, commenta con Formiche.net la situazione Cinzia Bianco, tra i massimi esperti italiani sulla regione.
Di cosa stiamo parlando? “Primo, stanno succedendo certi eventi in maniera continua, succedono a poca distanza di tempo gli uni dagli altri, e sono tutte situazioni di conflitto asimmetrico. C’è questo elemento di ambiguità strategica, che è effettivamente tipico delle Guardie rivoluzionarie (le forze armate teocratiche iraniane note anche come IRGC, ndr) che va sotto il nome tecnico di Plausible deniability, che però non possiamo considerarlo appannaggio esclusivo delle IRGC”, spiega l’analista della Gulf State Analytics (che si occupa di fare consulenza strategica per grandi aziende che vogliono muoversi nel Golfo) e Phd Candidate all’Università di Exeter.
E poi? “La seconda cosa che possiamo dire con certezza è che chi sta compiendo questi atti va identificato tra coloro che a tutti i costi vogliono un’escalation della situazione. E di questo genere di posizioni ce ne sono da entrambe le parti del Golfo. Dobbiamo considerare che questo genere di operazioni potrebbe essere anche condotto in modo parallelo all’autorità centrale, perché parliamo di paesi, come l’Iran stesso, dove vivono diversi attori che hanno agende quasi indipendenti, gli hardliner per esempio sono in netto contrasto con i riformisti. Una struttura interna dicotomica che ritroviamo anche in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi”, che sono i due Paesi nemici della Repubblica islamica iraniana nel Golfo Persico.
“Sia ad Abu Dhabi che a Riad – continua Bianco – ci sono diversi elementi che vedrebbero crescere la propria influenza in caso di scontro, ma tanti altri che vorrebbero utilizzare il clima di pressione/tensione soltanto per costringere gli iraniani a sedersi a un tavolo negoziale da una posizione di debolezza. Cosa che Teheran non vuole assolutamente, come è chiaro”.
Un altro aspetto che l’analista italiana sottolinea riguarda una previsione fatta da diversi esperti di Iran: “In tanti prevedevano che si sarebbe rafforzata la parte dei falchi dopo il ritiro americano dal Jcpoa (l’accordo sul nucleare stretto nel 2015, ndr) e che sarebbe stato possibile che coloro che pensavano che la diplomazia non fosse la strada giusta per Teheran avrebbero spinto verso lo scontro”. E sembra quello che sta succedendo. Ma a Riad e ad Abu Dhabi qual è l’interpretazione della situazione? “Dall’altra parte del Golfo sia emiratini che sauditi pensano che in Iran il punto di vista predominante sia che l’escalation non conviene, perché provocare gli Stati Uniti, una grande potenza globale, non viene vista come un’opzione possibile per Teheran, e per questo credono che prima o poi gli iraniani si siederanno di nuovo, indeboliti, al tavolo dei negoziati”.
Se l’Iran dovesse tornare a negoziare, a quel punto gli Stati Uniti potrebbero accettare di tornare sui proprio passi e allentare le sanzioni sul petrolio, una doppia sconfitta che non sarebbe la vittoria di nessuno, che però sembra l’unica strada percorribile per una de-escalation, e che forse sarà discussa – come annunciato dal Giappone, che ha già provato a Teheran una via di mediazione per conto degli Usa – all’interno dell’eterogeneità rappresentata dal sistema G20 a fine mese, a Osaka.