L’esito delle elezioni europee del 26 maggio consolida sensibilmente il ruolo politico di Salvini nella maggioranza di governo gialloverde, mentre l’alleato pentastellato precipita in uno psicodramma e in un dibattito autocritico interno, volto a individuare quali limiti della leadership, della comunicazione e dei contenuti programmatici abbiano principalmente inciso sulla perdita di 6 milioni di voti.
LA FORZA DI SALVINI
Salvini ostenta, magnanimo, la sua estraneità ad ogni intento ritorsivo o vessatorio nei confronti dell’alleato in difficoltà, sembra, per ora, impermeabile a qualsiasi tentazione di ricorso alla “bilancia di Brenno” e a quel lapidario “guai ai vinti!” che ancora caratterizza, nel ricordo, la figura dell’antico capo dei Galli Senoni che tentò l’assalto del Campidoglio. Del resto, pur nella consapevolezza di come, nelle negoziazioni sui programmi e sulle priorità di governo, la forza contrattuale dei leghisti sia notevolmente cresciuta, il vice premier leghista non intende, probabilmente, tirare la corda fino a provocare la rottura definitiva con l’alleato e la crisi di governo. E sa che la corda non appare così indistruttibile.
LA DEBOLEZZA DI DI MAIO
Nel dibattito interno ai 5 Stelle e nelle consultazioni on line con la base, la maggiore contestazione rivolta a Di Maio e al gruppo dirigente sembra identificarsi proprio nella scelta di alleanza con Salvini, nel rifiuto dei grillini di votare a favore dell’autorizzazione a processarlo nel caso Diciotti, in una sorta di condiscendenza del movimento nei suoi confronti che a molti è sembrata eccessiva. Dall’interno e dall’esterno si sviluppano pressioni e inviti ad abbandonare l’intesa con la Lega e tornare alle origini, ad un’opposizione “dura e pura”, per recuperare energie e consensi. Ma l’addio all’alleato comporterebbe, con molta probabilità, lo scioglimento delle camere ed elezioni anticipate.
LE OPPOSIZIONI
Le forze di centrodestra, se fossero di nuovo alleate sul piano nazionale, non avrebbero comunque i numeri per governare, nell’attuale Parlamento, mentre un’eventuale ipotetica alleanza tra 5 Stelle e Pd, maggioritaria in quello stesso Parlamento, risulterebbe minoritaria nel Paese, in virtù del dato più attuale che è quello delle europee. E proprio per questo nascerebbe politicamente debole, esposta alla contestazione di un difetto di sostanziale di rappresentatività. Dunque, la rottura dell’attuale coalizione di governo preluderebbe, con molta probabilità, alle elezioni anticipate. Che i 5 Stelle non auspicano, perché rischierebbero di vedere dimezzata la propria rappresentanza parlamentare. E lo stesso Salvini sembra preferire, per ora, la protrazione dell’esperimento di governo gialloverde, con un alleato indebolito e gravato da difficoltà interne, che stenterà ancor più a resistere a quella tendenziale egemonia leghista che il risultato delle europee tende a favorire. Salvini rilancia con più forza su sicurezza, flat tax e grandi opere, Tav, in particolare. E torna anche sulla riforma della giustizia.
L’AUTUNNO CALDO DELLA LEGGE DI BILANCIO
In autunno, tuttavia, il confronto sulla legge di bilancio affronterà il tema della copertura delle riforme già varate e di quelle promesse e la coperta corta, oltre alle diverse posizioni di merito tra le due forze alleate, potrebbero innescare continui bracci di ferro, con effetti logoranti per entrambe che renderebbero, a questo punto, inevitabile quel voto politico anticipato che oggi vorrebbero esorcizzare. E se questo, alla fine, si rivelasse lo sbocco inevitabile, come potrebbe prepararsi all’appuntamento la maggiore forza d’opposizione, il Partito democratico a guida Zingaretti? È il maggiore partito di opposizione e rappresenta, più di ogni altro, la possibile alternativa all’equilibrio gialloverde, gli altri due partiti di opposizione di una certa rilevanza, Forza Italia e FdI, sono solo “relativamente” alternativi, nel senso che considerano ancora la Lega come un potenziale alleato, qualora rompesse con 5 Stelle e sono, comunque, alleati con Salvini nelle diverse regioni guidate dal centrodestra.
LA STRATEGIA DEL PD
Il Pd, invece, non ha, in questo momento, alcuna sponda nella coalizione Lega-5 Stelle, è del tutto distinto e distante, è il naturale contraltare delle formazioni di governo, ma la percentuale dei suoi consensi, pur con l’incremento registratosi nelle europee, rischia di configurare il suo intento di realizzare l’alternativa in una “missione impossibile”. In caso di elezioni, o successivamente alle stesse, dovrebbe comunque indicare una strategia per tornare al governo del Paese. A questo fine avrebbe dinanzi a sé due diversi percorsi. Il primo consisterebbe nell’avvicinamento ai 5 Stelle, mancato nel 2013 e disertato nel 2018, giovandosi del diffuso malessere della base del giovane movimento e, probabilmente, anche di buona parte del gruppo dirigente, nei confronti dell’alleanza con la Lega e di un’anima tendenzialmente a sinistra che sembra diffusa nella base del movimento stesso.
PD VERSO LA SINISTRA…
Il presidente della Camera, Roberto Fico, rappresenta, forse, la figura emblematica di questo tipo di orientamento e di sensibilità. Per il Pd, anch’esso suddiviso in diverse anime, oltre che per la sinistra più in generale, si tratterebbe di un percorso difficile e sofferto, condizionato da perduranti prevenzioni e incompatibilità, ma costituirebbe, comunque, un’opzione per uscire dall’isolamento. Su questa linea gli ex Pd di Articolo 1 (Bersani, Speranza) – ormai orientati al rientro nella “casa madre” – sembrano già attestarsi. L’altra strada, più gradita a quei dem molto prevenuti verso 5 Stelle – area “renziana”, soprattutto, per capirci – è quella indicata da Carlo Calenda, all’indomani del voto europeo. La creazione di un “centro politico”, di cui oggi si avverte la carenza. C’è naturalmente Forza Italia, ma i dem come Calenda e “dintorni” pensano, naturalmente, ad un Centro che diventi l’alleato privilegiato del Pd, mentre Berlusconi persegue tuttora l’intento di riallearsi con Salvini e tornare a governare con lui.
…O VERSO IL CENTRO
Il Centro auspicato da una parte del Pd dovrebbe però, innanzitutto prendere i voti, e tanti, per consentire la realizzazione di un’alternativa – insieme al Pd – al “contratto” Lega – 5 Stelle. Il Pd è al 22%, creare un’alleanza che arrivi al 50 è impresa titanica! E il consenso, in genere, è accordato, in virtù di una credibilità sul piano culturale e identitario. Per rispondere alla “domanda di centro”, forse ancora diffusa nell’elettorato, un nuovo partito dovrebbe apparire nettamente autonomo e in posizione di pari dignità di fronte al Pd, potenziale alleato. Se sorgesse su impulso del PD medesimo, potrebbe apparire una sorta di clone, e, a quel punto, molti preferirebbero votare l’originale e altri, autenticamente centristi, non si sentirebbero attratti da una sorta di succursale di quello che costituisce, tuttora, il maggiore partito della sinistra. Due strade, quindi, per il Pd, che, nella percezione attuale, hanno di fronte un cammino lungo e assai complicato.